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Cnel, presentato il Rapporto sulla produttività italiana

“Presentiamo oggi il primo Rapporto annuale sulla produttività italiana, realizzato dal Comitato nazionale produttività, che è stato istituito presso il Cnel in attuazione della Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 20 settembre 2016. Quindi ci sono voluti nove anni per attuare questa iniziativa: l’Italia ha aspettato un po’ di tempo, ma ci siamo riusciti”. Così il presidente del Cnel Renato Brunetta alla presentazione del Rapporto annuale sulla produttività 2025 presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, appuntamento che sarà replicato il 16 settembre a Londra presso il Global Productivity Forum dell’Ocse.

“Il productivity board è un organismo voluto dall’Unione europea e già costituito in tutti i Paesi comunitari – ha spiegato Brunetta. “L’Europa richiede che il Comitato produttività sia affidato a un soggetto terzo, e per questo è stato istituito al Cnel, frutto della cultura dei corpi intermedi”.

Il presidente del Cnel, dopo la premessa informativa, s’è addentrato nelle pieghe del Rapporto: “Prevale il luogo comune che l’Italia abbia basse performance di produttività. Ma c’è da domandarsi come ciò si concili con il primato nell’export. Evidentemente c’è qualcosa che non torna nella contabilità statistica. In effetti siamo un Paese con grandi capacità di export, abbiamo tante meravigliose piccole imprese manifatturiere che fanno cose complicate, dove la produttività è però difficilmente misurabile. Penso, ad esempio, al settore della moda, dove i nuovi modelli non vengono classificati come innovazione”.

L’analisi di Brunetta è nel lungo periodo: “L’impennata inflazionistica ha determinato un abbassamento del costo del lavoro, mentre il costo d’uso del capitale è progressivamente cresciuto. Le imprese italiane hanno quindi preferito espandere il fattore lavoro piuttosto che investire in beni capitali, in particolare quelli legati alla digitalizzazione. Così è aumentata l’occupazione ma prevalentemente in settori a basso valore aggiunto, a bassa qualificazione del capitale umano e a bassa produttività. Però – ha continuato il presidente del Cnel – abbiamo anche altissima tecnologia in Italia, ma in forma atomistica, cioè spesso in forma individuale, quindi poco rilevata, una produttività che si contabilizza poco, ma che funziona tanto. In particolare abbiamo poche grandi imprese nel terziario avanzato, dove si ha alta produttività, specie nei settori ad altissima tecnologia. Ma, in generale, siamo ancora in ritardo nelle dinamiche della produttività e in quelle salariali. Che fare? Occorre intervenire su alcune nostre caratteristiche genetiche. Fare crescere le nostre imprese. E introdurre dosi massicce di nuove tecnologie, di skills, di formazione. Investire in capitale umano, soprattutto in ambito Stem. E poi investimenti pubblici, ricerca, innovazione”.

Ad esporre, nel dettaglio, le caratteristiche del Rapporto è stato Carlo Altomonte, coordinatore del Comitato nazionale per la produttività e docente presso la “Bocconi” di Milano.

Il professore ha presentato i quattro capitoli del Rapporto: il primo sulle analisi e sulle politiche riguardanti la produttività in Italia; il secondo sulla dinamica della produttività del lavoro nel contesto internazionale; il terzo di analisi della produttività a livello territoriale; l’ultimo sulle imprese, con i differenziali di produttività.

Bassa produttività

I numeri riguardanti l’Italia sono impietosi: dal 1995 la nostra produttività è stata sempre sotto la media europea e quasi sempre vicina allo zero, esattamente più 0,2%, salvo nel periodo 2009-2014 con un più 0,6%. Negli ultimi cinque anni, tra il 2019 e il 2024, la produttività è rimasta sostanzialmente ferma.

Tutti valori molto inferiori alla media dell’Unione europea (1,2%), così come a quelli di Germania (1%), Francia (0,8%, ma ora è in area negativa) e Spagna (0,6%).

Ciò, come evidenziato già da Brunetta, cozza con il record di esportazioni, dove siamo quattro volte sopra la media europea. Ma occorre tenere presente – come rileva Altomonte – che ad esportare il 55% del valore totale sono appena 1.300 grandi aziende. Se il tessuto produttivo non cresce e si modernizza, c’è un serio rischio competitivo nel medio periodo. E non va dimenticato che stiamo beneficiando ancora del Pnrr.

Un questione connessa è quella del divario territoriale soprattutto tra Nord e Sud. Ma non solo. Esistono ormai aree depresse, soprattutto montane, anche nel Centronord del nostro Paese.

“C’è uno schema che la politica deve rompere – ha spiegato Altomonte. “I bassi salari, addirittura inferiori al 2021 secondo l’Ocse, e la bassa qualificazione delle risorse umane sono realtà interconnesse con la flebile domanda di competenze e con gli scarsi investimenti in capitale intangibile. Sappiamo che innovare aumenta la produttività del 20%. Per cui, come indichiamo nel Rapporto, dobbiamo puntare sulla formazione e su migliori competenze”.

La forbice è accentuata dalla bassa dotazione di competenze digitali della forza lavoro: solo il 16% dei lavoratori italiani possiede competenze ICT elevate, mentre la media è del 30% in Germania e Francia. Anche la quota di laureati in discipline STEM (15%) è ben al di sotto della media dell’Unione europea (26%).

Concrete le proposte conclusive: migliorare la produttività con un approccio integrato: competenze, imprese, territori; coordinare le politiche tra ministeri e tra livelli amministrativi (centrale-locale, nazionale-europeo), anche in chiave di efficientamento delle risorse; sostenere investimenti di lungo periodo per innovazione, competenze e digitalizzazione.

Per quanto riguarda, nel dettaglio, il sistema produttivo, l’attenzione dovrebbe essere rivolta ad estendere e potenziare programmi di sostegno alla managerializzazione e all’internalizzazione delle imprese, nonché a riformare la fiscalità relativa alle successioni e alla trasmissione delle quote di proprietà familiare, al fine di eliminare i disincentivi fiscali all’apertura del capitale e alla cessione del controllo e infine a razionalizzazione le diverse soglie dimensionali di impresa previste da obblighi normativi e contributivi, con l’obiettivo di eliminare disincentivi alla crescita e promuovere il passaggio alla micro alla media dimensione nell’ambito della Legge sulla concorrenza.

Tra le altre proposte: potenziale il credito di imposta in ricerca e sviluppo per investimenti in tecnologie digitali e capitale intangibile umano con formazione continua, politiche per i giovani e rafforzamento dell’istruzione tecnica e terziaria; creare un credito di imposta Formazione 4.0 per le competenze in settori con potenziale di alta produttività (manifatturiero avanzato, ICT e servizi digitali, costruzioni ad alta efficienza, sanità tecnologica, logistica intelligente ed energia rinnovabile); rendere operativa la riforma della filiera formativa tecnologico-professionale (legge 121 del 2024), potenziando gli ITS ede il raccordo con i corsi STEM universitari attraverso target misurabili e specifiche risorse allocate allo scopo.

Più investimenti immateriali

A seguire Alessandro Turrini, capo unità, DG Affari Economici e Finanziari della Commissione europea, ha analizzato nel dettaglio il Rapporto, non mancando di fornire consigli per le prossime edizioni, come quello di offrire un orientamento su un più lungo periodo e di approfondire maggiormente le cause rispetto alla semplice descrizione. Turrini si è complessivamente complimentato per il lavoro, evidenziando in particolare la concretezza delle raccomandazioni.

L’esperto ha sottolineato che spesso i governi hanno un orizzonte temporale troppo breve per affrontare questioni di crescita a lungo termine, giustificando la creazione di organismi come i Boards. “Bruxelles ha anche elaborato delle Raccomandazioni specifiche per rafforzare questi Comitati – ha ricordato Turrini. “Auspichiamo che i rapporti sulla produttività includano un’analisi di lungo periodo, approfondendo la distinzione tra ciclicità e fattori strutturali della produttività. L’invito è a non limitarsi a proposte di breve e medio termine, ma a generare idee e stimolare un dibattito che vada oltre gli schemi attuali. L’eccellente lavoro del Comitato italiano è un passo positivo in questa direzione – ha concluso.

Marco Buti, docente dell’European University Institute, dopo aver espresso apprezzamento per la proposta lanciata dal presidente Brunetta di un PERR, piano europeo di ripresa e resilienza che faccia seguito al PNRR, s’è soffermato sul modello di crescita comunitario, che giudica insostenibile per almeno tre motivi: l’eccessiva dipendenza dalla domanda estera, il problema demografico con l’invecchiamento della popolazione e l’allontanamento dalla frontiera tecnologica, con gli Usa che registrano quasi il doppio degli investimenti in questo campo rispetto all’Europa. L’esito di questa situazione genera rischi di marginalizzazione geopolitica, di crescita debole e di ulteriori ritardi nella produttività.

Il professor Buti ha richiamato alcune ricette del Rapporto Draghi: completamento del mercato unico, crescita sostenibile e recupero del ruolo geopolitico dell’Europa. A cui ha aggiunto l’importanza di non gettare alle ortiche l’impegno sulla transizione verde.

Infine, ricordando la proposta presentata dalla Commissione del Next Generation EU, piano da 750 miliardi di euro, mobilitati attraverso un indebitamento europeo, il professore ha ricordato che la Commissione propose di destinare circa il 15% delle risorse a progetti transnazionali, ovvero cose da fare in comune, ma tale proposta finì nel tritacarne del negoziato del Consiglio. I 750 miliardi sono rimasti, però quel 15% di interventi comuni sui beni pubblici europei si trasformò in trasferimenti agli Stati membri. “Ora prevedo che quando le nuove proposte della Commissione sul bilancio comunitario post-2027 entreranno concretamente nel dibattito con gli Stati membri, l’assalto alla diligenza partirà dalla novità più importante, ovvero il raddoppio dei fondi per la ricerca e lo sviluppo di Horizon. Si tenderà a tagliare le spese buone, il debito buono, con un’ottica molto miope – ha affermato Buti.

Marcella Panucci, già direttore generale della Confindustria, oggi docente della Luiss, si è soffermata sul capitolo della imprese, ricordando i ritardi del tessuto produttivo italiano negli investimenti in innovazione: nella classifica delle prime mille imprese investitrici in Europa, l’Italia ne ha soltanto quarantaquattro, tra cui Leonardo, alcune banche e qualche industria farmaceutica.

La giurista ha inoltre ricordato che soltanto il 16% dell’export italiano è in alta tecnologia e che un altro problema collegato alla bassa produttività è il flebile tasso di laureati nel nostro Paese: nel 2024-25 gli iscritti agli atenei erano soltanto 329mila.

Infine Panucci ha evidenziato che le imprese italiane sono sensibili alle buone pratiche politiche, come nel caso di 4.0, esperienza politica che però ha generato molti effetti materiali ma poca digitalizzazione. La strada giusta, secondo l’esperta, è quella di maggiori investimenti nell’immateriale e nel capitale umano, superando quel problema tipico delle piccole aziende dove l’imprenditore non managerializza la propria impresa.

In chiusura Ottavio Ricchi, direttore generale Analisi e Ricerca del Mef, dopo aver promosso il Rapporto per “le puntuali analisi, il rigore metodologico e la ricognizione delle politiche in vigore”, ha riassunto le tre aree in cui si concentrano le proposte: competenze e investimenti, con suggerimenti per la formazione e i partenariati; la struttura produttiva, con un’attenzione alle PMI e alla semplificazione burocratica; i divari territoriali. “Le iniziative proposte indicano la giusta direzione – ha detto Ricchi. “È cruciale comprendere che le politiche nazionali hanno un’influenza limitata in un contesto globale in profonda evoluzione. In tal senso, occorre anche considerare che le raccomandazioni della Commissione Europea, un tempo appiattite sul modello tedesco e focalizzate sul contenimento della domanda interna, hanno fortunatamente cambiato rotta. La competitività, in questo nuovo contesto, non significa più solo aumentare i surplus commerciali, ma agganciarsi alle catene globali per stimolare l’innovazione. Un altro punto di riflessione riguarda il ruolo dello Stato: è essenziale responsabilizzare tutti gli attori coinvolti, stimolando la cultura imprenditoriale e investendo a lungo termine”.

Il presidente del Cnel, Renato Brunetta, ha concluso i lavori.

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