
Si chiama gender gap, divario di genere,o meglio ancora gender pay gap, divario retributivo di genere, una definizione utilizzata per sottolineare la diseguaglianza tra uomini e donne che investe varie dimensioni della vita sociale e lavorativa di tutti i giorni.
Questa differenza di genere è ben evidenziata dalla relazione sul Bilancio di Genere del Mef, illustrata in audizione alle commissioni Bilancio di Senato e Camera dalla sottosegretaria all’Economia, Cecilia Guerra.
Il bilancio di genere è stato introdotto in via sperimentale dall’articolo 38-septies della legge 196 del 2009 come strumento che mira a realizzare una maggiore trasparenza sulla destinazione delle risorse di bilancio e sul loro impatto su uomini e donne.
Esce così fuori dal rapporto 2020 per l’esercizio finanziario 2019, che il reddito medio delle donne rappresenta circa il 59,5 per cento di quello degli uomini a livello complessivo. La diversità dei redditi si riflette anche nel gettito fiscale con una minore aliquota media per le donne, con l’unica eccezione del più basso decimo di reddito.
La relazione analizza l’indice di uguaglianza di genere dell’EIGE (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) che segnala i notevoli progressi realizzati dall’Italia, attualmente al 14esimo posto nella graduatoria europea, con un punteggio pari a 63 punti rispetto a una media europea di 67,4, guadagnando dodici posti rispetto al 2005.
Nonostante tutto, l’Italia rimane l’ultimo paese in termini di divari nel dominio del lavoro, che è anche quello in cui ha fatto meno avanzamenti.
Le evidenze disponibili suggeriscono che più di una donna su dieci trova un impiego dal quale percepisce uno stipendio basso. L’incidenza di lavoratori dipendenti con bassa paga (calcolata come il rapporto tra il numero dei dipendenti con una retribuzione oraria inferiore a due terzi di quella mediana e il totale dipendenti) mostra che nel 2019 le lavoratrici in questa situazione sono l’11,5 per cento, in lieve riduzione rispetto al 12,1 per cento del 2008 (-0,6 punti percentuali). Gli uomini con bassa paga sono il 7,9 per cento nell’ultimo anno mentre nel 2008 erano l’8,6 per cento (-0,7 punti percentuali). Esiste quindi un divario di genere significativo, pari a -3,6 punti percentuali e che persiste da almeno un decennio.
Per l’occupazione femminile emergono performance differenziate anche tra le diverse aree del territorio nazionale.
Le donne residenti nel Mezzogiorno con bassa paga sono una quota più rilevante. Nel 2019 sono il 19,4 per cento, valore superiore di 5,3 punti percentuali rispetto a quello degli uomini. Al Centro e al Nord le quote di lavoratrici con bassa paga sono inferiori e pari rispettivamente a 11,2 per cento e 8,3 per cento. Per quanto riguarda l’età, il fenomeno appare rilevante per le donne più giovani: nel 2019, le donne tra i 15 e i 24 anni in questa situazione raggiungono il 33,5 per cento e le donne tra i 25 ei 34 anni circa il 15 per cento. Con l’aumentare dell’età diminuiscono le lavoratrici con bassa paga, tranne che nel caso delle donne over 65 anni (20,8 per cento). Aumentano le donne occupate sovraistruite rispetto al proprio impiego e persiste la segmentazione orizzontale del mercato del lavoro. Le donne sono per lo più dipendenti, mentre non crescono le libere professioniste e le imprenditrici. Sono impiegate principalmente nel commercio, nella sanità e nell’istruzione. Tra le criticità esistenti nel mercato del lavoro italiano persiste una mancata corrispondenza tra il livello di istruzione di chi lavora e l’occupazione svolta. I dati sugli occupati sovraistruiti, cioè coloro che possiedono un titolo di studio superiore a quello frequentemente posseduto per svolgere la loro professione mostrano che questa condizione riguarda il 26,5 per cento delle donne nel 2019 e che è un fenomeno in aumento, poiché nel 2008 le donne occupate sovraistruite erano il 20,4 per cento. Si tratta di una condizione che colpisce maggiormente le donne: il divario rispetto agli uomini è pari a 2,8 punti percentuali (gli occupati uomini sovraistruiti sono il 23,7 per cento nel 2019) ed è rimasto stabile in quasi tutto il decennio.
Le differenze reddituali tra le donne e gli uomini derivano anche dalla diversa concentrazione nei settori di attività economica e tra le professioni economiche degli occupati. Le donne sono occupate principalmente in alcuni settori e ciò produce effetti negativi, oltre che in termini di minor reddito persona per le donne, anche in termini di allocazione delle risorse umane nel mercato del lavoro. Questo fenomeno è evidente nei settori tecnologici e scientifici, definiti come STEM, dove gli stereotipi di genere nel mondo del lavoro e dell’istruzione hanno prodotto una bassa concentrazione delle donne nei settori interessati, con le conseguenze del caso in termini di retribuzione e di inefficiente allocazione delle risorse. Le lavoratrici sono occupate principalmente nel commercio, nella sanità e assistenza sociale e nell’istruzione. Il 39,6 per cento delle donne lavorano in questi settori mentre diminuisce l’occupazione femminile nell’industria della manifattura. Le donne italiane sono in grande maggioranza lavoratrici dipendenti (82,9 per cento del totale); non cresce, inoltre, la quota di libere professioniste (5,2 per cento) e delle imprenditrici (0,6 per cento).
La maternità e la cura dei figli sono ancora dei fattori condizionanti per le donne che vogliono entrare nel mondo del lavoro, oppure progettano di rientrarci, dopo la maternità. Il lavoro di cura non retribuito all’interno delle famiglie è svolto in gran parte dalle donne e, nonostante gli interventi in essere per favorire la conciliazione della vita privata e della vita lavorativa e per incentivare gli uomini a partecipare al lavoro domestico e familiare, le madri rimangono sensibilmente meno occupate delle donne senza figli. Il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con almeno un figlio in età prescolare (0-5 anni) e il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni senza figli nel 2019 è pari a 74,3 per cento.
La difficoltà di avere un impiego per le donne con figli è particolarmente rilevante nel Sud e nelle Isole dove nel 2019 le lavoratrici con figli tra i 25 e i 49 anni sono il 66,8 per cento delle lavoratrici senza figli con una riduzione di 1,6 punti percentuali rispetto a dieci anni fa. Al Centro e al Nord il rapporto supera invece l’81 per cento nel 2019, registrando un aumento rispetto al decennio precedente (+3,1 punti percentuali per il Nord e +5,5 punti percentuali per il Centro). Per incrementare l’accesso al mercato del lavoro delle donne con figli è importante l’offerta di servizi di assistenza all’infanzia. In Italia questi servizi sono di competenza degli enti locali. Alcune evidenze suggeriscono che aumenti nei bilanci degli enti locali potrebbero indirettamente avere effetti positivi sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Le donne che lavorano in part-time sono in aumento e nel 60 per cento dei casi non è una scelta della lavoratrice. La maggiore incidenza di lavori con bassa paga per le donne contribuisce a peggiorare i livelli retributivi delle donne
In quasi tutti i paesi l’occupazione femminile è cresciuta principalmente grazie alla sempre maggior diffusione del tempo parziale tra le donne. Il part-time è una modalità di lavoro che permette alla lavoratrice di avere maggiore tempo libero a disposizione e con più flessibilità e l’impresa può usufruire di una maggiore flessibilità organizzativa. Ma il livello retributivo è inferiore e le occupate in part-time rischiano un’ulteriore forma di segregazione e discriminazione, sotto forma di bassa qualità delle mansioni, scarse opportunità formative, compromissione delle possibilità di carriera e precarietà della posizione lavorativa. Nel 2019, le donne in Italia che ne usufruiscono sono il 32,9 per cento del totale delle occupate, il dato più alto nell’ultimo decennio. Nel 2018 rappresentavano il 32,4 per cento del totale (+0,5 punti percentuali). La crescita del part-time per le donne è stata costante nell’ultimo decennio.
“Queste evidenze sulle disuguaglianze di genere nei redditi, quando non derivanti da vere e proprie discriminazioni sul mercato del lavoro a scapito delle donne, sono in larga parte il riflesso della ‘specializzazione’ di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù della quale le donne più frequentemente accettano retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari”, ha spiegato Guerra commentando i dati del Bilancio di Genere del Mef.
UNSIC – Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori
