Le cronache di questi giorni riportano in primo piano la realtà dell’impoverimento industriale del nostro Paese. Una tendenza, ormai di lungo corso, che coinvolge nel settore privato non soltanto una classe di dinastie familiari che si sono sfarinate con il passare delle generazioni, insieme a tanti manager dalle capacità molto discutibili, ma anche, nel settore pubblico, un esteso susseguirsi di governi incapaci di attuare una politica industriale degna di questo nome. E se sul fronte dell’industria di Stato abbiamo purtroppo assistito prima all’edificazione delle grandi cattedrali nel deserto soprattutto nel Mezzogiorno e poi alle svendite clamorose dei nostri “gioielli di famiglia”, operazioni talvolta collegate anche ad episodi di malaffare, nel settore privato delle grandi aziende il cortocircuito tra decisori istituzionali e mondo imprenditoriale è stato una costante.
A ciò si aggiunge la lunga e spesso disastrosa stagione delle privatizzazioni, che ha segnato passaggi spesso molto discutibili, con un risultato finale irrefutabile: il tessuto industriale italiano nel complesso si è indebolito, nonostante – o forse per colpa – dell’irruzione di tante proprietà straniere.
Colpisce che tanti grande aziende avevano, alle spalle, “narrazioni” anche secolari e piene di momenti esaltanti, cammini spesso interrotti e consegnati definitivamente alla storia.
– Presidente Mamone, che ne pensa?
“È vero, è tramontata l’epoca delle ‘bandiere industriali’ del nostro Paese, spesso rappresentate da una solida imprenditoria familiare invidiataci in tutto il mondo. Viene subito in mente la Fiat della famiglia Agnelli, che ha costituito per circa un secolo il primario emblema del nostro Paese a livello internazionale. Oggi, principalmente a causa di sfide globali, le aggregazioni ridimensionano certi brand. La Fiat è diventata la divisione italiana di una multinazionale, è finita nel Gruppo Stellantis che controlla, oltre al brand italiano, altri ben tredici marchi automobilistici. In Italia resta poco: la sede principale è ad Amsterdam, la società ha una rilevante partecipazione dello Stato francese, un importante nucleo gestionale a Detroit e ha soci come Exor, Peugeot e Bpi che hanno il peso più rilevante in assemblea. È un caso non unico che equivale al ridimensionamento del contributo delle grandi aziende allo sviluppo del Paese”.
– I casi sono tanti…
“Certamente. Sappiamo che fine ha fatto dopo 75 anni di attività un’altra bandiera nazionale, l’Alitalia: terminata la parentesi con gli arabi di Etihad, è stata sminuita in Ita Airways e finirà quasi certamente nelle mani di Lufthansa, con la probabile cessione del 90% nel giro di tre anni. L’elenco delle grandi aziende è lungo, toccando un po’ tutti i settori, dal siderurgico, con l’ex Ilva al centro delle cronache per lo scontro con Mittal, alle telecomunicazioni di Tim passato a Vivendi fino all’agroalimentare. L’Italia, di fatto, in questi ultimi anni ha perso la maggior parte delle grandi imprese private. Restano soltanto alcuni gruppi dell’energia, come Eni o Enel, che hanno lo Stato come azionista di riferimento e che probabilmente serviranno a breve a fare nuova cassa con la vendita di quote”.
– Perché questo immenso e storico patrimonio è scomparso?
“Le cause sono molteplici. Nelle grandi aziende familiari, i passaggi generazionali hanno imposto nuovi proprietari non sempre ben formati rispetto all’alternativa dei manager specialisti e soprattutto senza quelle ‘visioni’ dei loro antenati. È mancato l’indispensabile passaggio nel dotarsi degli aggiornamenti tecnici, delle novità tecnologiche, ma anche finanziarie. Di fronte alle crisi, poi, c’è stato un controllo accentuato dei costi, rinunciando agli investimenti. Ma va ricordato anche il ruolo della politica, dello Stato-Pantalone che è intervenuto per salvare carrozzoni già cotti, casomai mettendo alla guida di queste aziende non validi professionisti ma i soliti personaggi legati ai partiti e con scarsissime capacità manageriali. Qualcuno mette sul banco anche i danni di certo sindacalismo”.
– La questione è però estendibile anche alle piccole e medie imprese, il tessuto più dinamico e numericamente rilevante del nostro Paese: i fondi di investimento esteri stanno acquisendo i migliori brand italiani. Talvolta l’ingresso è proficuo per salvaguardare storici marchi, specie laddove investimenti operati con intelligenza lasciano le caratteristiche, il know-how originario. Ma in molti casi l’acquisizione, specie da parte asiatica, serve per far propri modelli, sistemi, competenze, professionalità da esportare in madrepatria, svuotando il “contenitore” italiano. La Cina, per fare un esempio, negli ultimi vent’anni ha investito circa 162 miliardi di euro nel nostro Paese per acquistare aziende e marchi. Oltre al settore chimico (48 miliardi), energetico (26 miliardi), immobiliare (23 miliardi) e minerario (23 miliardi), nonché nel digitale, nell’automotive e nella finanza, spiccano soprattutto il food e il lusso, simboli del Made in Italy nel mondo”.
“Sì, anche qui l’elenco è infinito e fa ancora più male perché i casi non si limitano ad una conta con le dita. Una scheda di qualche tempo fa ne riportava una cinquantina soltanto tra quelli più conosciuti, ad esempio i principali marchi dell’olio extravergine di oliva o del settore caseario o della birra, tanto per rimanere nel settore alimentare. Gran parte della finanza globale ha investito in aziende italiane per acquisirne la proprietà, senza risparmiare alcun comparto. Il ‘made in Italy’ della moda, quello a lungo celebrato all’estero, in gran parte è finito in mani straniere, dall’holding francese di Bernard Arnault, che controlla praticamente i due terzi del mercato della moda e del lusso a livello globale (il suo patrimonio ha oltrepassato i 200 miliardi di dollari) fino agli asiatici di Mayhoola Investments che hanno acquisito la maison Valentino o agli americani che hanno assunto il controllo di Gianni Versace”.
– Tra le cause c’è, però, anche la difficoltà di fare impresa in Italia…
“La burocrazia uccide in particolare le piccole e medie aziende. Le tasse e le difficoltà di accesso al credito le strozza. Poi ci sono i tempi della giustizia. Il malaffare. L’eccessivo peso della politica, anche a livello locale. Insomma, ogni criticità atavica del nostro Paese si riflette anche nel mondo industriale. Se non affrontiamo seriamente questi nodi, compreso il debito pubblico che impedisce manovre espansive fatte di sostanziosi tagli delle tasse e investimenti, la situazione non può che peggiorare”.