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Disoccupazione giovanile: una questione di fiducia

L’Italia e la disoccupazione condividono una lunga e travagliata storia, un rapporto che si è inasprito negli ultimi anni, assumendo la forma di un vero e proprio fenomeno. La disoccupazione si è scavata con estrema violenza un posto di rilievo nella nostra società e ha imposto il vessillo dell’incertezza sul futuro di milioni di italiani, andando a colpire soprattutto i giovani. È, dunque, il mondo giovanile quello più colpito dal fenomeno della disoccupazione. Questo aspetto ha radici profonde, che trovano origine ben prima della crisi economica degli ultimi anni, ed è ancor più vero oggi: secondo l’Istat, nonostante i timidi segni di ripresa del nostro Paese, il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 18 e i 24 anni è cresciuto del 39,3%, e l’occupazione degli under 35 sta crescendo troppo lentamente per poter assumere una certa rilevanza. Al contrario, l’occupazione tra gli over 50 è cresciuta di oltre 350mila unità nell’ultimo anno, confermando come l’Italia non sia “un Paese per giovani”. Eppure le difficoltà lavorative dei giovani non è un fenomeno “giovane”, non è legata profondamente alla crisi economica come tanti problemi del nostro Paese. La disoccupazione giovanile trova, al contrario, la propria origine nel sistema scolastico e nella società italiana. Secondo il rapporto McKinsey & Company del 2014, infatti, “il fenomeno è radicato nel nostro Paese da lungo tempo e ha natura strutturale: negli ultimi vent’anni, infatti, la probabilità per un giovane sotto i 30 anni di essere disoccupato è risultata essere stabilmente 3,5 volte superiore alla popolazione adulta”. Una prima ragione della disoccupazione giovanile si può individuare, prosegue il rapporto, nello “sbilanciamento quantitativo tra domanda delle imprese e scelte dei giovani”: sempre più spesso gli interessi personali vengono anteposti alle reali necessità del mercato del lavoro, portando gli italiani a scegliere percorsi di studio poco “spendibili” nella ricerca di un impiego. Le aziende italiane faticano a trovare giovani adatti alle mansioni da svolgere, tanto che, ad esempio, secondo il rapporto McKinsey & Company nel 2012 sono rimasti vacanti più di 65mila posti di lavoro. Ciò è frutto di una profonda disinformazione dei giovani italiani, che non hanno effettiva coscienza, al momento della scelta universitaria, di quello che effettivamente servirà loro in futuro. Ma il sistema scolastico stesso non è senza colpe: la formazione offerta nelle nostre università è spesso troppo teorica e poco adatta alle esigenze delle imprese. Le università fanno poco per favorire l’occupabilità dei giovani e spesso la distanza tra la formazione e il mondo del lavoro risulta incolmabile. Paesi come la Germania, al contrario, offrono corsi di orientamento di alto livello e hanno impostato vere e proprie forme di apprendistato, che si accompagnano allo studio fornendo quelle competenze pratiche necessarie a formare veramente gli studenti. Naturalmente anche i canali di supporto alla ricerca del lavoro si sono dimostrati inadeguati. Nel nostro Paese essi danno un effettivo risultato solo nell’1% dei casi, laddove in Germania costituiscono il principale mezzo di ricerca e di lavoro, risultando efficaci in oltre l’80% dei casi (dati del rapporto McKinsey & Company). L’inadeguatezza di tali strutture è dovuta sicuramente all’enormità delle domande, ma anche ad una effettiva difficoltà burocratica e strutturale. Spesso i centri di collocamento si sono dimostrati spaesati di fronte alle problematiche del mondo del lavoro, incapaci di offrire valide opzioni e un efficace orientamento. I giovani, dunque, faticano a trovare un proprio spazio nel mondo del lavoro. Le aziende stesse assumono più volentieri gli over 35, ispirate dalla maggiore fiducia nelle loro competenze e da un senso generale di affidabilità. Esse spesso in passato hanno preferito evitare di trovarsi vincolati ai giovani, assumendoli con contratti precari e a tempo determinato, per potersi riservare la facoltà di “liberarsi del problema”. Con le riforme degli ultimi anni, questo fenomeno sembra risultare più raro, ma non è del tutto scomparso. L’assenza di fiducia nei giovani lavoratori rappresenta un problema profondamente radicato e assolutamente lontano da una effettiva soluzione. Non stupisce, dunque, che i giovani italiani si siano rivolti e continuino a rivolgersi all’estero per trovare il proprio spazio nel mondo lavorativo. La formazione più concreta e la maggiore fiducia offerte da alcuni Paesi risultano un’attrattiva importante, portando inevitabilmente alla cosiddetta “fuga dei cervelli”. Non è un caso che recentemente uno di questi “cervelli in fuga”, Roberta D’Alessandro, si sia scagliata contro l’esultanza del Ministro Stefania Giannini per gli italiani vincitori del bando europeo Erc Consolidator: 17 dei 30 italiani vincitori, infatti, studiano e lavorano all’estero. Pertanto la fiducia risulta il centro nevralgico della questione della disoccupazione giovanile. Si tratta della fiducia nei giovani, che vengono visti come poco affidabili dalle imprese italiane e quindi vengono lasciati da parte in favore di persone con maggiore esperienza; ma si tratta anche della fiducia dei giovani stessi, che non confidano più nel loro Paese e nella loro società, trovandosi costretti a fuggire all’estero in cerca di nuove opportunità. Nessuno potrà dare una vera soluzione al problema della disoccupazione giovanile, finché questo gap di fiducia non verrà definitivamente e positivamente risolto.

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