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La Cina potenza mondiale è una normalità della storia

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Succede questa cosa a scuola, che sembra che abbiano inventato tutto i cinesi: la carta moneta, la polvere da sparo, la bussola… Però la Cina è sembrata, a lungo, lontana, molto lontana: se anche i cinesi hanno inventato qualcosa, rimaneva per noi una curiosità scolastica, ma poi ai nostri occhi contava quello che se ne era fatto in Occidente. L’esplosione della potenza economica cinese ci sorprende; è vero, per qualche anno, per piccoli gruppi di utopisti rivoluzionari, la Cina era vicina, ma quella era una Cina immaginaria, un grande Paese in preda alle convulsioni di una guerra civile e una rivoluzione sanguinosa, che per equivoco, per distanza, per speranza, veniva creduto un modello. Ma quello era solo un mito: invece è concreta ed evidente la realtà attuale, di una Cina nuova superpotenza economica.

Quello che quasi nessuno sa è che questa forza globale cinese non è una vera novità, ma piuttosto un ritorno a quella che è la normalità della storia: la Cina sembra essere sempre stata il centro della ricchezza mondiale, tranne che per alcuni secoli, quelli della rivoluzione industriale e del colonialismo europeo, diciamo tra 1700 e 1900. Secondo i calcoli, pur necessariamente approssimativi, degli storici dell’economia, nel 1400 la Cina produceva il 30% della ricchezza mondiale, nel 1500 un quarto, nel 1700, quando comincia la grande crisi ancora oltre il 20%. Per capirci, gli Stati Uniti, che ovviamente prima del 1800 non esistevano come realtà economica, sono arrivati a percentuali simili (il 25% della ricchezza mondiale) “solo” nel 1930, e quindi in ottica storica il loro prima è piuttosto breve, dato che, dopo essere crollata nella polvere tra ‘800 e ‘900, oggi la Cina risulta di nuovo avere all’incirca raggiunto gli Usa, su percentuali di ricchezza mondiale prodotta vicine, anche se inferiori, al 20% (dati: Business Insider Italia).

E’ anche sorprendente, e significativo, come la Cina odierna, anche se governata con un regime a partito unico senza dubbio autoritario, svolga un ruolo sullo scenario internazionale di proposta di un ordine mondiale multilaterale improntato alla collaborazione con gli altri Stati: per esempio, il governo cinese ha ratificato e sostiene il protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas serra contro il cambiamento climatico, che la nuova America “sovranista” di Trump contesta. Quando Pechino si è rivolta pubblicamente a Washington perché procedesse alla ratifica, chi ricordasse gli anni 50, quando il governo cinese era aggressivamente avversario delle Nazioni Unite e gli Usa si ergevano a difensori dell’ordine internazionale,  ha potuto misurare quanto i tempi siano cambiati. Il leader cinese Xi Jinping interviene in tutti i consessi internazionali per sostenere il libero scambio, ciò che provoca qualche equivoco in chi lo descrive come un “comunista liberista”, ma il governo cinese (che continua a proclamarsi “socialista con caratteristiche cinesi”) non è il liberismo, cioè l’economia di mercato non regolata, ma piuttosto l’apertura ai commerci tra nazioni (“liberoscambismo”), il cui opposto è il protezionismo.

La grande iniziativa-vetrina cinese per promuovere lo sviluppo congiunto col resto del mondo è la “Nuova via della seta”, un gigantesco piano di investimenti in infrastrutture in tutto il mondo, per creare una rete di contatti tra Cina, Africa, Asia ed Europa (molto poco liberista, quindi, perché tal genere investimenti non si possono fare coi privati, ma solo con un forte intervento statale; però funzionale al libero scambio). Non è tutt’oro quello che luccica: i governanti cinesi sono gente dura, e il loro approccio non è esattamente quello umanitario di tipo scandinavo. Gli investimenti cinesi sono in forma di prestiti che possono diventare gravosi: lo Sri Lanka ha dovuto cedere la proprietà di un porto e terra per ripianare. Pare che altri Paesi asiatici, ed uno europeo, il Montenegro, siano vulnerabili oggi a qualche forma di controllo cinese sulle loro infrastrutture.

Stessa questione per l’aiuto agricolo cinese, che è fonte di molte polemiche: da un lato, si può sicuramente riconoscere che la Cina sostiene lo sviluppo agricolo africano, impiegando la propria esperienza di paese agricolo che è uscito dalla miseria e dalla carestia; dall’altro, ci sono seri dubbi sul costo politico di quel sostengo: si parla di landgrabbing, cioè di acquisizione aggressiva di terre fertili. Si deve poi sempre ricordare che il potere cinese si mostra è dialogante e aperto al compromesso all’esterno, ma diventa sempre più ruvido man mano che ci si avvicina alle sue frontiere: che si tratti di un pugno di isolette nel Pacifico contese col Giappone, e ancor di più con la questione del Tibet.

La tecnologia cinese, arrivata terza sulla scena mondiale dopo quelle giapponese e coreana, sta prendendo piede in maniera crescente: ma la diffidenza verso la mano di ferro che potrebbe essere nascosta nel guanto di velluto della diplomazia cinese ha già fatto allarmare i servizi segreti occidentali: girano rapporti che mettono in guardia dall’affidare alla Huawei grandi appalti di reti informatiche per aziende e governi, poiché non c’è modo di sapere che i dati possano essere spiati e trasmessi ai grandi archivi informatici di Pechino; per la verità, questo rischio c’è anche con i sistemi informatici made in Usa o made in Europe, tutti ricordiamo le polemiche su Echelon e il “grande orecchio” americano, e Pechino risponde a questi dossier osservando che qualunque potenza e qualunque azienda possono giocare sporco, perché proprio su di loro far sorgere sospetti (o meglio, perché solo su di loro ?).

Grande forza economica porta grande potere politico, e quindi è un fatto che la Cina sempre di più farà contare la sua voce, i suoi modi, la sua cultura nell’arena nazionale: a volte potranno piacerci, a volte no, potremo fidarci oppure no, magari dovendo sempre più spesso scegliere se preferire vecchi alleati americani o scommettere sul nuovo gigante, ma sempre dovremo farci i conti. Anche i suoi emigranti non sono una plebe senza volto e senza storia: tendono rapidamente a formare in Italia e in Europa, come già da secoli in altri Paesi asiatici e da almeno cent’anni negli Stati Uniti, una classe imprenditoriale molto attiva nel business commerciale. Oggi però, queste comunità non solo possono contare sulla loro proverbiale industriosità: hanno alle spalle tutto il peso politico della madrepatria.

Un piccolo esempio: nel 2007, l’amministrazione comunale di Milano cominciò ad esercitare pressione sui commercianti cinesi. Si voleva evitare la tendenza spontanea, nel quartiere attorno a via Paolo Sarpi, ad un’eccessiva concentrazione di negozi all’ingrosso che si sostituivano ai molti negozi e servizi di prossimità, creando disagio agli abitanti di vecchia data; ma la modalità di contrastare un’evoluzione economica sicuramente controversa e da correggere non fu brillante: si diede disposizione alla polizia municipale di applicare alla lettera, cioè secondo modalità rigide e non attuate in altri quartieri milanesi, i regolamenti cittadini di carico e scarico merci, portando i commercianti all’esasperazione e alla protesta, finché fu addirittura il governo cinese, tramite il suo console, a discutere con la sindaca Moratti: una questione di ordine locale era diventata una questione internazionale. Segno della forza globale di una nazione che era lontana.

LUCA CEFISI

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