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Il “7 aprile” del Rwanda, 23 anni dopo: i difficili conti con la memoria

KankindiUn milione di omicidi in cento giorni. Casa per casa, anche all’interno della stessa famiglia. Nelle chiese, ultima speranza di sfuggire al destino. Persino negli ospedali, nelle scuole, nelle residenze per disabili. Una macelleria sterminata, un vero e proprio genocidio. Corpi finiti a colpi di machete o di bastoni chiodati, mangiati da cani e da topi. Rivoli d’acqua colorati dal sangue degli innocenti. Un amaro conteggio che include anche 4.338 bambini massacrati in una sola cittadina da 80mila abitanti. E’ il Rwanda della primavera 1994. Ventitre anni fa.

Una mattanza originata dall’odio etnico, paradossalmente generatosi all’interno dello stesso popolo. Un rancore non innato, ma abilmente costruito dal colonialismo occidentale. Alimentato e strumentalizzato dagli occupanti europei con la logica del divide et impera.

Le due etnie locali, quelle dei contadini Hutu e degli allevatori Tutsi, hanno convissuto pacificamente per seicento anni. I primi sono arrivati intorno all’anno mille, i secondi nel XV secolo. Ma parlano la stessa lingua, venerano lo stesso dio Imana, frequentano le stesse chiese, sono sposati tra loro. Hanno combattuto fianco a fianco per difendere le proprie terre.

All’inizio del Novecento, però, in questo lembo d’Africa centrale grande come la Sicilia, privilegiato dal clima mite che avvolge le mille colline, sono giunti gli europei. I tedeschi per primi. Quindi i belgi. Poi i francesi. Ma anche le immancabili e non proprio disinteressate presenze degli Stati Uniti. Il potere coloniale ha cominciato ad adottare meccanismi sociali sconosciuti a quelle latitudini. Con logiche basate su centralismo, divisionismo e rigido controllo pubblico. Negli anni Trenta sono apparse le carte d’identità con l’indicazione dell’appartenenza ad una delle due “razze”. Identità alterata per sempre. E’ il trionfo della strategia del dominare dividendo. I Tutsi vengono messi a controllare gli Hutu, costretti a coltivare enormi quantità di caffè e tè da esportare; quando questi non raggiungono le quote imposte, i primi infliggono loro punizioni corporali. Sono i germi dell’odio.

Nel dopoguerra, con la voglia di indipendenza che contagia soprattutto i Tutsi, il potere coloniale inverte le preferenze: sono gli Hutu, tra l’altro maggioranza numerica, ad acquisire i benefici, fino a salire al comando. Mentre i Tutsi cadono in disgrazia.

Dalla fine degli anni Cinquanta gli eccidi diventano una consuetudine ciclica, legati per lo più alle lotte politiche. L’indipendenza del 1962 non riduce le tensioni; il colpo di Stato del 1973 vede gli Hutu al potere con il militare Juvénal Habyarimana; all’inizio degli anni Novanta i Tutsi dell’esercito del Fronte patriottico, guidati dal generale Kagame, danno vita a quasi tre anni di guerra civile che si conclude con i fragili accordi di pace di Arusha. I massacri provocano diaspore, crisi umanitarie, epidemie di colera che arrivano a mietere 60mila vittime.

La comunità mondiale è per lo più indifferente alla sorte dei civili. Gli interventi degli organismi internazionali sono marginali.

Non cambiano gli scenari anche in quel drammatico e insanguinato 1994, atto conclusivo del più grande dramma in terra d’Africa che vede un intero popolo di sette milioni di abitanti trasformato (indotto?) in carnefici e vittime. Quasi il 20% di quel popolo sparirà per sempre.

Tra le numerose letture dei fatti, quella più sconcertante è firmata dagli economisti Michel Chossudovsky e Pierre Galand, che hanno trattato a più riprese il dramma africano. I due studiosi, uno canadese e l’altro belga, partendo dall’analisi del debito estero del Rwanda nel periodo 1990-94, accusano direttamente gli Usa, cinicamente interessati – secondo gli autori – a stabilire una loro sfera d’influenza in una regione dominata storicamente da Francia e Belgio, anche attraverso la militarizzazione dell’Uganda. Nel complesso intreccio, che includerebbe anche le miniere dello Zaire con le riserve di cobalto, cruciale per l’industria militare, non mancano ramificazioni con il business delle armi, con i rilevanti conti correnti attivati in banche occidentali e connivenze con i leader africani. Insomma, secondo i due economisti si trattò di una guerra non dichiarata tra Francia ed America, suggellata dal film “Hotel Rwanda”, che elude completamente le responsabilità di Washington.

Per ricostruire le vicende di quei tragici giorni, ne parliamo con Françoise Kankindi, rwandese che vive dal 1992 in Italia, co-autrice del libro “Rwanda, la cattiva memoria” insieme a Daniele Scaglione, presidente di Amnesty International dal 1997 al 2001.

Nata già profuga in Burundi, dove il padre insegnante si era rifugiato per sfuggire ai massacri del 1959, s’è laureata in economia e commercio all’Università Cattolica di Milano. E’ presidente dell’associazione “Bene Rwanda”.

 

– Dottoressa Kankindi, partiamo da uno dei nodi più problematici, le responsabilità politiche dei massacri…

– E’ un capitolo complesso perché, coinvolgendo più soggetti, ha bisogno dell’emersione di una verità storica condivisa, mentre, nonostante l’estesa documentazione ormai a disposizione, c’è ancora più di qualcuno che sfugge alle proprie responsabilità.

Per rispondere alla sua domanda, partirei innanzitutto dalla difficile eredità della colonizzazione e della decolonizzazione di Belgio e Francia in Africa, con gli innegabili strascichi anche di potere, economici e sociali.

La Francia ha sempre conservato una sua influenza sulle zone francofone africane, adottando quella che viene definita ‘politica sporca’. Il generale Charles de Gaulle diceva che gli Stati non hanno amici, ma interessi. Ed è vero. Parigi ha sostenuto alla luce del sole il governo in carica durante il genocidio, mantenendo anche un fermo atteggiamento negativo e negazionista. La documentazione che supporta quanto affermo è ormai amplissima. Nel mio libro cito, ad esempio, l’articolo di Serges Farnel su Le Monde del 13 maggio 2010, in cui l’autore evidenzia il coinvolgimento diretto di militari di Parigi nel massacro delle colline di Bisesero, dove furono uccisi circa 40mila Tutsi, e il libro “Rwanda 6 avril 1994. Un attentat francais?”di Michel Sitbon, dove s’ipotizza addirittura il coinvolgimento della Francia nell’attentato all’aereo presidenziale che diede il via al massacro.

Più in generale, però, il genocidio ha lasciato indifferente il mondo intero, che ha voltato le spalle al Rwanda. I Paesi più potenti del mondo – Stati Uniti in primis – sono colpevoli del mancato intervento per fermare i massacri. Hanno spedito rapidamente migliaia di propri soldati, americani, francesi e belgi, alle prime avvisaglie del pericolo, solo per tirare fuori dal Paese i tanti connazionali, i ‘bianchi’, lasciando lì i neri che chiedevano loro di essere portati via. Non hanno attenuanti. Durante quelle operazioni mai mi sarei aspettata che le nazioni ‘patria’ dei diritti umani avessero l’insensibilità e la faccia tosta di portare via soltanto gli occidentali, lasciando dietro di sé donne e bambini indifesi davanti alla furia omicida degli Hutu. Anche l’Italia si preoccupò di recuperare i bianchi e poi, un paio di mesi dopo, di portare in salvo qualche bambino rwandese, un’operazione mediatica, un teatrino per dimostrare la bontà di cuore degli occidentali.

C’è poi il capitolo dell’Onu, il comportamento inqualificabile dei suoi dirigenti che di fatto ne hanno impedito l’intervento per fermare il genocidio. Un atteggiamento che ha annullato la Convenzione del 1948, che aveva dato forma giuridica al “mai più” dopo i massacri della seconda guerra mondiale.

Aggiungerei le colpe dei media internazionali, silenti mentre tutti noi a quei tempi sapevamo quello che stava succedendo, anche perché la radio locale invitava ad uccidere i Tutsi, definiti ‘gli alberi alti’. I nostri tentativi di coinvolgere giornali e televisioni sono andati tutti a vuoto. Sono convinta che il nostro tenerci sistematicamente fuori dai mezzi d’informazione fosse conseguenza di una scelta precisa. A ciò si aggiunge un diffuso pregiudizio verso l’Africa, spesso dipinta come un continente senza civiltà e cultura. Per cui passò anche il messaggio che si trattava di scontri tribali, delle ‘solite’ lotte tra selvaggi.

Un’altra pagina riguarda le responsabilità di alcune organizzazioni per i diritti umani che operavano nel Paese: beneficiando dei molti aiuti internazionali, forse anche per questo evitavano di assumere posizioni politiche.

Infine la chiesa: indubbiamente ci sono stati religiosi che hanno cercato di aiutare le vittime, anche a costo della loro vita, ma ci sono stati anche preti e suore genocidi, alcuni dei quali hanno persino trovato poi rifugio nelle parrocchie italiane. Perché il Vaticano non ha agevolato la loro estradizione verso il tribunale internazione di Arusha, istituito dall’Onu nel novembre 1994 per giudicare i responsabili del genocidio ruandese?”.

 

– Il tema delle responsabilità è dunque abbastanza chiaro, per quanto controverso. E’ però possibile tracciare una ricostruzione storica condivisa degli avvenimenti?

“Grazie al lavoro incessante di storici, giornalisti, magistrati e analisti, nonché alle testimonianze di coloro che in quel tragico 1994 si trovavano in Rwanda, è possibile avere un quadro abbastanza fedele degli accadimenti. E’ chiaro, ad esempio, che i massacri erano stati pianificati. Lo stesso generale canadese Romeo Dallaire, che guidava la missione di peacekeeping dell’Onu in Rwanda dall’agosto 1993, aveva inviato allarmati cablogrammi al Palazzo di Vetro con le prove che si era alla vigilia di un massacro, che qualcuno voleva sterminare i Tutsi. Sappiamo che Kofi-Annan, segretario dell’Onu, rispose al generale di non fare niente, di non provare a fermare nemmeno la distribuzione delle armi. Stati Uniti, Gran Bretagna e gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite si guardarono bene dall’usare la parola ‘genocidio’ negli atti ufficiali, così non scattò alcun obbligo ad intervenire, in base al diritto internazionale”.

 

– Il generale Dallaire rimase in Rwanda praticamente depotenziato, con qualche centinaio di caschi blu per lo più africani. Il Belgio, dopo l’uccisione di dieci suoi soldati, ritirò il proprio contingente e nessuno Stato se la sentì di partecipare alla missione, anche a massacri già avviati. Specie per gli Stati Uniti pesò la missione in Somalia, quando appena tre mesi prima furono uccisi 18 soldati americani. Ma secondo lei, se il generale Dallaire avesse potuto schierare più caschi blu, si sarebbe potuto evitare il terzo genocidio del Novecento?

“Certamente sì, non c’è dubbio. Inoltre la presenza di una corposa forza di pace avrebbe avuto un effetto deterrente. Sono portata a credere che anche un semplice appello alla radio, da parte del segretario generale delle Nazioni Unite, a non massacrare i Tutsi, avrebbe evitato gli eccidi, conoscendo l’inclinazione ad ubbidire all’autorità da parte della popolazione rwandese”.

 

– Quali sono le responsabilità di Dallaire, che comunque decise di rimanere in Rwanda, per quanto depotenziato?

“Dallaire non può essere assolto. E’ lodevole che lui abbia deciso di restare sul campo e che in tutto quel marasma abbia provato a fare qualcosa, ma così facendo ha funzionato come specchietto per le allodole. L’Onu, in sostanza, poteva affermare di aver lasciato un contingente di caschi blu. Dallaire avrebbe potuto urlare al mondo quello che stava succedendo.

Gli va però dato atto delle sue testimonianze postume: il suo libro “Shake hands with the Devil”, mai tradotto in italiano, è un testo fondamentale che imbarazza gli occidentali, in primo luogo la Francia, di cui lui ha denunciato le strette relazioni con i responsabili del genocidio. Se l’Onu ha finalmente riconosciuto ‘il genocidio’, con tale termine, è anche merito di questo generale canadese”.

 

– La vicenda che scatenò i massacri, quasi un pretesto, fu l’abbattimento a Kigali del jet privato Falcon del presidente Juvenile Habyarimana, al potere dal 1973. Un missile terra-aria, il 6 aprile 1994, colpì il velivolo, che tra l’altro era un regalo di Mitterand. La moglie del presidente del Rwanda fu evacuata e messa in salvo proprio dalle truppe francesi. Gli autori di quell’attentato sono rimasti ignoti. Alcuni accusano i Tutsi, altri gli Hutu per le aperture del presidente Habyarimana verso la minoranza Tutsi. In ogni caso le violenze iniziarono appena qualche ora dopo. Lei che ne pensa?

“A parlare sono le carte. Secondo una prima inchiesta sull’attentato, coordinata dal magistrato francese Jean-Louis Brughiere in quanto tra le vittime vi erano cittadini francesi, il velivolo sarebbe stato abbattuto da un missile sparato da alcuni guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, l’esercito Tutsi guidato dall’attuale presidente rwandese Paul Kagame, appostati in una fattoria sulla collina di Masaka, a circa 3,5 chilometri dal luogo dello schianto. Brughiere nel novembre 2006 emise nove mandati di cattura nei confronti di altrettanti alti dirigenti del Fronte, tra cui lo stesso Kagame.

Ma i due giudici francesi Nathalie Poux e Marc Trevidic, titolari della nuova inchiesta, nel 2012 hanno presentato un rapporto balistico che dimostra ‘senza ombra di dubbio’ che i missili sono stati sparati dal campo militare sulla collina di Kanonbé, allora sotto il controllo delle forze armate rwandesi. Ciò significa che a sparare sarebbero stati militari Hutu”.

 

– Il suo libro, già nel titolo, richiama alla “cattiva memoria”. Abbiamo visto nell’esperienza della Shoah, ma anche in quella del popolo armeno, come i conti con la memoria rappresentino un dramma nel dramma. Come vivono i rwandesi il ricordo della tragedia? Come si costruisce un processo di riconciliazione?

“Il genocidio rwandese presenta una grande differenza rispetto a quelli degli ebrei e degli armeni: vittime e carnefici, spesso vicini di casa, da noi sono stati costretti a tornare a convivere negli stessi territori. Tu continui a vivere vicino ad un assassino, a più assassini. Con quell’orrore che ognuno di noi si porta dentro le viscere, con notti spesso piene di incubi della violenza immane subita dalla nostra gente.

Rwanda2Subito dopo il genocidio bisognava ricostruire tutto da zero. Il 90% della popolazione aveva ucciso. Mancavano persino magistrati e avvocati per giudicare. Ma occorreva soprattutto una sorta di psicoanalisi collettiva. Inoltre c’era il rischio delle vendette, e alcune ci sono state, ma anche la necessità di proteggere i testimoni.

Siamo allora ripartiti dalla nostra identità, dalle usanze più antiche. E un ruolo centrale l’hanno avuto i Gacaca, i tribunali popolari della tradizione africana, reintrodotti legalmente non per punire qualcuno, ma per ricostituire il tessuto sociale nella comunità.

I tribunali hanno luogo a cielo aperto sui prati, sono gestiti dai saggi dei villaggi e ne fanno parte tutte le famiglie interessate dal processo, mentre i giudici, gli inyangamugayo, non devono aver partecipato al genocidio. Le punizioni in genere sono lavori sociali, risarcimenti con alimenti o detenzione. Il grado della pena può essere diminuito se c’è una confessione. Alla fine dei dibattiti viene spesso organizzato un pranzo riconciliatore.

Mentre i crimini più efferati, come la pianificazione del genocidio, le stragi, gli stupri, la tortura sessuale, sono stati giudicati dai tribunali nazionali e internazionali, i Gacaca si sono occupati per lo più di omicidi, lesioni personali e delitti patrimoniali.

Questi tribunali sono serviti innanzitutto per dimostrare che possiamo cavarcela da soli noi rwandesi, ma anche per non lasciare marcire le persone in prigione: dopo otto anni dal massacro c’erano oltre centomila detenuti e solo il 6% aveva ottenuto un processo. Poi i Gacaca sono serviti per documentare quanto è successo e per dare ai sopravvissuti la possibilità di sapere come sono morti parenti, amici o conoscenti. L’immagine di copertina del mio libro si riferisce proprio ad uno di questi tribunali popolari: in queste sedute psichiatriche di massa di fatto è rinato il Rwanda.

Riguardo alla memoria, ritengo che tutto vada calibrato sui giovani. Loro costituiscono la speranza di un futuro condiviso, dove i risentimenti devono essere tenuti a bada, nonostante le minacce siano ancora presenti soprattutto da parte di chi vive fuori dal nostro Paese e intende farvi ritorno. I giovani incarnano la speranza di un popolo non più identificato per etnia, ma per nazionalità.

Bene è stato fatto a conservare anche fisicamente dei ‘luoghi della memoria’, per quanto sconvolgenti perché lasciati così come apparivano dopo il massacro. L’anno scorso sono stata a Nyamara, piccola chiesa a 35 chilometri dalla capitale Kigali. Qui il 10 aprile 1994 sono state massacrate 2.500 persone e sono in esposizione molti teschi. Ogni volta che torno in Rwanda vado a visitare un luogo della memoria, ma un solo posto alla volta è il ritmo che posso sopportare. Il luogo più sconvolgente è Murambi. Qui nel 1994 vi si stava costruendo una scuola e decine di migliaia di Tutsi vi si radunarono in cerca di protezione, spinti dalle autorità civili e religiose. Era una trappola: arrivarono le milizie e sterminarono non meno di 27mila persone. I francesi poi coprirono la fossa comune con un po’ di terra argillosa che fermò la decomposizione dei corpi. Oggi sono esposti migliaia di corpi su bancali di legno dentro le aule. E’ fortissimo il contrasto tra la bellezza del posto e il massacro”.

 

– Com’è oggi il Rwanda?

“Un Paese con una situazione economica e sociale notevolmente migliorata. C’è una diffusa speranza e soprattutto tanta voglia di lavorare. L’aspettativa di vita dal 1994 è raddoppiata, la scuola è obbligatoria fino ai tredici anni, i due terzi della popolazione è al di sotto dei 15 anni. S’è lavorato molto per combattere la corruzione, per favorire la meritocrazia, per dare spazio alle donne, che sono maggioranza in parlamento e occupano i ministeri-chiave.

RwandaIl Rwanda cresce, è pulito, c’è ottimismo. Certo, i poveri sono ancora molti, anche se dal 60% s’è scesi al 45% negli ultimi dieci anni, secondo le statistiche ufficiali.

E’ un Paese nel quale a me e a mio marito rwandese piacerebbe tornare a vivere. Ma abbiamo un figlio che è nato a Roma, si sente romano, parla romanesco ed è romanista. L’eventualità di vivere in Rwanda lo preoccupa perché l’idea che ha dell’Africa in generale è quella che gli viene trasmessa dai media italiani. Chi vorrebbe vivere in un posto dove accadono sempre e solo disgrazie? Ma per fortuna, nell’ultimo viaggio che abbiamo fatto in Rwanda, ha potuto vedere una realtà ben diversa. Il che gli ha fatto cambiare idea”.

 

– Oggi, 7 aprile, c’è la commemorazione del genocidio. Un rito che ricorre da più di vent’anni. Come viene vissuto oggi?

“Non è una data di 24 ore perché segna l’inizio di un lungo periodo di lutto e di riflessione. Ribadiamolo: nel 1994 sono stati massacrati quasi un milione di uomini, donne e bambini,  un settimo della popolazione. Nel Paese delle mille colline non c’è una particella, non un villaggio, non una famiglia che non sia stato toccato dal genocidio. Per fortuna il gusto di vivere insieme è ritornato grazie alle sedute collettive dei Gacaca, all’istituzione della Commissione nazionale di lotta contro il genocidio e alla Commissione per l’unità e la riconciliazione. Tutte le istituzioni, dal governo all’Umudugudu (municipio) sono stati investiti nel rendere effettivo il mai più. Il ricevimento del presidente Paul Kagame da Papa Francesco, che ha “implorato il perdono per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica”, ha aperto una nuova era nei rapporti tra il Rwanda e la chiesa cattolica, ed è stato un balsamo al cuore di tanti cristiani rwandesi che hanno visto i loro cari massacrati nelle chiese dove avevano cercato rifugio. I rwandesi stanno investendo nel consolidare il progresso raggiunto e il prossimo 4 agosto le elezioni presidenziali confermeranno l’attuale leadership, che non solo ha fermato il genocidio, ma onestamente ha anche lanciato il Paese verso uno sviluppo salutato positivamente da tutte le parti. Quando guardo il Paese dove sono nata, il Burundi, dove i Tutsi sono massacrati nel totale silenzio della comunità internazionale, mi viene da gridare al mondo intero che la Convenzione internazionale per la prevenzione del genocidio non è da archiviare, ma deve anzi essere un appiglio a cui aggrapparsi per rendere il nostro mondo libero da massacri di innocenti.

(Giampiero Castellotti)

 

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CHI E’ FRANÇOISE KANKINDI

FrancoiseNata nel 1970 da genitori ruandesi, rifugiati in Burundi in seguito al primo genocidio perpetrato in Rwanda nel 1959 da parte degli Hutu nei confronti della minoranza Tutsi, ha

trascorso l’infanzia e l’adolescenza in un Paese in cui essere rifugiato significava non avere diritto né alla scuola né alla cittadinanza.

Nel 1992 si è trasferita in Italia per proseguire gli studi universitari.

Due anni dopo, nel 1994, ha perso tutta la famiglia nel genocidio che in circa cento giorni ha visto uccidere barbaramente più di un milione di persone Tutsi.

Nel 1998 si è laureata all’Università Cattolica di Milano in Economia e Commercio e, grazie all’ottimo curriculum, ha iniziato immediatamente a lavorare presso la società Sap Italia in qualità di consulente di informatica, dove è rimasta fino al 2002, quando è stata assunta da Poste italiane a Roma nell’ambito dell’amministrazione e controllo.

Nel 2005 si è sposata con Eric Wibabara, ruandese, in Italia dal 1996, reduce della sanguinosa guerriglia che nel luglio 1994 ha fermato il genocidio in Rwanda. Oggi Eric, unico sopravvissuto della sua famiglia, lavora alla Cgil, dove è funzionario della Fillea Roma-Lazio.

Ha un figlio, Alain, nato a Roma come extracomunitario, ma divenuto cittadino italiano da quando la coppia ha acquisito la cittadinanza.

Dal 2005 è presidente dell’associazione no profit “Bene-Rwanda”.

 

 

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Kankindi: “Rwanda, les comptes difficiles avec la mémoire”

par Giampiero Castellotti
Un million de meurtres en cent jours. Maison par maison, même au sein d’une seule famille. Dans les églises, le dernier espoir d’échapper au sort. De même dans les hôpitaux, les écoles, les résidences pour les personnes handicapées. Une boucherie ininterrompue, un véritable génocide.

Les corps achevés à coups de machette ou de bâtons cloutés, mangés par les chiens et les rats. Ruisseaux d’eau colorés par le sang des innocents. Un décompte amer qui inclut 4338 enfants meurtris dans une seule ville de 80 mille habitants. C’est le Rwanda du printemps de 1994, il y a deux décennies.

Un massacre causé par la haine ethnique, paradoxalement générée au sein d’un seul peuple. Une rancune non pas innée, mais habilement construite par le colonialisme occidental, propulsée et exploitée par les occupants européens dans l’intention de diviser pour régner.

Les deux groupes ethniques locaux, celui les paysans Hutus et celui des agriculteurs Tutsis, ont coexisté pacifiquement pendant six siècles. Le premier arriva vers l’an mille, le second au XVème siècle. Mais ils s’expriment dans la même langue, adorent le même Dieu Imana, fréquentent les mêmes lieux de culte, se marient entre eux. Et ils se sont battus l’un à côté de l’autre pour défendre leurs terres.

Au début du XXe siècle, cependant, dans cette partie de l’Afrique centrale aussi grande que la Sicile et favorisée par la douceur du climat qui entoure ses mille collines, arrivèrent les Européens. D’abord les Allemands, puis les Belges et les Français. Mais aussi l’immanquable et certes pas désintéressée présence des États-Unis. C’est à ce moment-là que le pouvoir colonial commença à adopter des mécanismes sociaux inconnus sous ces latitudes, par des logiques basées sur la centralisation, la volonté de diviser les uns des autres et un contrôle public très stricte. Dans les années trente firent leur apparition les cartes d’identité avec l’indication de l’appartenance à l’une ou l’autre des deux «races» :  identité modifiée à jamais. Ce fut « le triomphe de la stratégie de dominer en divisant ». Les Tutsis furent obligés de contrôler les Hutus, les forçant de cultiver d’énormes quantités de café et de thé pour l’exportation, et leur infligeaient des châtiments corporels dès qu’ils ne parvenaient  pas à respecter les quotas imposés. De là l’origine de la haine.

Dans l’après-guerre, avec la volonté d’indépendance qui gagna notamment les Tutsis, le pouvoir colonial inversa ses préférences: c’était désormais les Hutus, majorité numérique aussi, qui acquièrirent des bénéfices, jusqu’à parvenir au pouvoir, tandis que les Tutsis tombèrent en disgrâce.

A’ partir des années cinquante les massacres furent à l’ordre du jour, dus pour la plupart  aux luttes politiques. L’indépendance de 1962 ne fit pas baisser les tensions; à la suite du coup d’Etat de 1973 les Hutus montent au pouvoir avec le militaire Juvénal Habyarimana; au début des années quatre-vingt-dix les Tutsis de l’armée du Front patriotique, guidée par le général Kagame, donnèrent lieu à près de trois années de guerre civile qui se termina par les fragiles accords de paix d’Arusha. Les massacres ont provoqué des diasporas, des crises humanitaires, des épidémies de choléra dont ont péri 60 mille personnes.

La communauté mondiale est restée en grande partie indifférente sur le sort des civils. Les initiatives des organismes internationaux furent marginales.

Les scénarios sont restés les mêmes en 1994, année sanglante, dernier acte du plus grand drame vécu en terre de l’Afrique qui vit toute une population de sept millions de personnes se transformer (ou se trouver induite?) en bourreaux et victimes. Près de 20% de ces personnes disparaîtront à jamais.

Parmi les nombreuses lectures des faits, la plus déconcertante est signée par les économistes Michel Chossudovsky et Pierre Galand, qui ont traité à plusieurs reprises la tragédie africaine. Les deux chercheurs, un Canadien et un Belge, à partir d’une analyse de la dette extérieure du Rwanda dans la période 1990-1994, accusent directement les États-Unis, intéressés de façon cynique – à leur avis – à mettre en place une sphère d’influence américaine dans une région historiquement dominée par la France et la Belgique, même par la militarisation de l’Ouganda. Dans un enchevêtrement complexe, dont feraient partie les mines du Zaïre avec ses réserves de cobalt, crucial pour l’industrie militaire, il existerait des ramifications avec l’entreprise des armes, les comptes bancaires importants ouverts dans les banques occidentales et une connivence avec les dirigeants africains. En bref, selon les deux économistes, il s’agirait d’une guerre non déclarée entre la France et les Etats-Unis, scellée par le film Hôtel Rwanda, qui ignore délibérément la responsabilité de Washington.

Dans l’objectif de reconstituer les événements de ces jours tragiques, nous en avons parlé avec Françoise Kankindi, rwandaise vivant en Italie depuis 1992, co-auteur avec Daniele Scaglione, président d’Amnesty International de 1997 à 2001, de l’ouvrage Rwanda, la cattiva memoria.
Née réfugiée au Burundi, où son père enseignant s’était réfugié pour échapper aux massacres de 1959, elle a obtenu son diplôme en Economie et commerce à l’Université catholique de Milan. Elle préside l’association “Bene Rwanda”.
Dr. Kankindi, nous allons commencer par une des questions parmi les plus problématiques, c’est-à-dire la responsabilité politique des massacres…
C’est un chapitre complexe, parce que, impliquant plusieurs sujets, il nécessite  d’une vérité historique commune, alors que, malgré la vaste documentation disponible, nombre de personnes échappent à leurs responsabilités.

Pour répondre à votre question, je commencerai par l’héritage difficile de la colonisation et de la décolonisation belge et française en Afrique, avec ses conséquences inévitables non seulement économiques et sociales, mais de pouvoir également.

La France a conservé son influence sur les régions francophones d’Afrique, par l’adoption de ce que l’on appelle « une sale politique ». Le général Charles de Gaulle affirmait que les Etats n’ont pas d’amis, mais des intérêts. Et il en est ainsi. Paris a ouvertement soutenu le gouvernement en place pendant le génocide, tout en maintenant une attitude ferme négative et négationniste. La documentation qui confirme mes propos est désormais très vaste. Dans mon livre, je cite, par exemple, l’article de Serges Farnel paru dans « Le Monde » du 13 mai 2010 : l’auteur démontre l’implication directe des militaires de Paris dans le massacre qui eut lieu dans les collines de Bisesero, où furent tués environ 40 mille Tutsis, et le livre Rwanda 6 avril 1994. Un attentat francais?” de Michel Sitbon qui avance l’hypothèse de l’implication de la France dans l’attentat à l’avion présidentiel qui déclencha le massacre.

D’une manière générale, cependant, le génocide a laissé indifférent le monde entier, qui a tourné le dos au Rwanda. Les pays les plus puissants du monde – les États-Unis en premier – sont coupables de ne pas avoir pris de mesures pour arrêter les massacres. Ils ont rapidement envoyé des milliers de soldats, américains, français et belges, au premier signe de danger, seulement pour faire sortir du Pays leurs compatriotes, les «blancs», laissant à leur sort les noirs qui pourtant leur demandaient de les emmener. Il n’y a pas d’excuses. Au cours de ces opérations, je ne me serais jamais attendue à cette insensibilité des nations «patries» des droits de l’homme, à ce qu’elles aient le toupet de ne faire partir  que les occidentaux, laissant derrière des femmes et des enfants sans défense devant la folie meurtrière des Hutus. L’Italie aussi mit tout en œuvre pour récupérer les blancs, puis, quelques mois plus tard, pour sauver quelques enfants du Rwanda ; ce fut une opération médiatique, un guignol organisé dans l’objectif de montrer le bon cœur de l’Occident.

Nous avons ensuite le chapitre de l’Onu, le comportement inqualifiable de ses dirigeants qui en fait ont empêché l’intervention pour arrêter le génocide. Un comportement, celui-ci,  qui a annulé la Convention de 1948, qui a donné une forme juridique au «plus jamais», se référant aux massacres de la Seconde Guerre mondiale.

Je voudrais ajouter la culpabilité des médias internationaux, silencieux alors que nous tous étions parfaitement au courant de ce qui se passait, même parce que la radio locale invitait à tuer les Tutsis, qu’elle appelait les « grands arbres». Nos tentatives d’impliquer les journaux et la télévision ont été inutiles. Je suis convaincue du choix délibéré de nous garder systématiquement éloignés des médias. À cela s’ajoute un préjugé largement répandu sur l’Afrique, que l’on décrit souvent comme un continent sans civilisation ni culture. Le message qui passait est qu’il s’agissait d’affrontements tribaux, des luttes «habituelles» entre sauvages.

Je rappelle également les responsabilités de quelques-unes des organisations des droits de l’ homme présentes dans le Pays qui profitaient des nombreuses aides internationales, et c’est peut-être pour cette raison qu’elles ont évité d’assumer des positions politiques.

Enfin, l’Église: sans aucun doute quelques-uns parmi ses membres ont tâché d’aider les victimes, même au prix de leur vie, mais il y eu aussi des prêtres et des religieuses qui ont pratiqué le génocide; certains d’entre eux ont été ensuite accueillis dans les paroisses italiennes. Qu’est-ce qui a empêché au Vatican de faciliter leur extradition vers le tribunal international d’Arusha, créé par l’Onu en novembre 1994 pour juger les responsables du génocide rwandais?
Bien que controversée, la question de la responsabilité est donc tout à fait claire. Est-il possible de tracer une reconstruction historique partagée des événements?

Grâce au travail minutieux des historiens, journalistes, juges et analystes, ainsi qu’aux témoignages des personnes qui se trouvaient au Rwanda en ​​cette tragique année 1994, nous avons une image assez précise des événements. Il est clair, par exemple, que les massacres ont été planifiés. Le général canadien Romeo Dallaire, qui a dirigé la mission de maintien de la paix des Nations-Unies au Rwanda à partir du mois d’août 1993, avait envoyé à l’Onu des câblogrammes où il manifestait sa grande inquiétude et prouvait qu’un massacre se préparait, que quelqu’un voulait exterminer les Tutsis. Nous savons que le secrétaire de l’Onu Kofi Annan, répondit au général de ne rien faire, de ne même pas essayer d’arrêter la distribution des armes. Les États-Unis, la Grande-Bretagne et les autres Pays membres permanents du Conseil de sécurité des Nations Unies évitaient d’utiliser le mot «génocide» dans les actes officiels, afin de ne pas se trouver obligés de prendre des mesures conformément au droit international.

 

Le général Dallaire au Rwanda est resté pratiquement sans pouvoirs, avec quelques centaines de casques bleus, des africains  pour la plupart. La Belgique, à la suite de l’assassinat de dix de ses soldats, retira son contingent et aucun État n’eut le courage de participer à la mission, même quand les massacres avaient déjà commencé. Ce comportement peut s’expliquer, pour les États-Unis notamment, par la mission en Somalie, où trois mois avant à peine avaient été tués 18 soldats américains. Mais, à votre avis, si le général Dallaire avait eu la possibilité de déployer davantage de casques bleus, aurait-il évité le troisième génocide du XXè siècle?

Certes, il n’y a pas de doute. Et la présence d’une force de maintien de la paix composée de nombreux soldats aurait eu un effet dissuasif. Je suis portée à croire que même un simple appel à la radio, par le Secrétaire général de l’Organisation des Nations Unies, à ne pas massacrer les Tutsis, aurait empêché les meurtres, connaissant la propension de la population  rwandaise à obéir à l’autorité.

 

Quelles sont les responsabilités de Dallaire, qui cependant prit la décision de rester au Rwanda, bien que ses pouvoirs étaient fort affaiblis?

Il est impossible d’acquitter Dallaire. Tout en louant sa décision de rester sur le terrain et ses tentatives d’agir de quelque façon dans le marasme général, cela a fonctionné comme un leurre. L’Onu, en définitive, pouvait affirmer d’avoir laissé un contingent de casques bleus. Quant à Dallaire, il aurait pu  crier au monde entier ce qui se passait.

Mais il faut lui reconnaître le mérite de son témoignage posthume : son livre Shake hands with the Devil [J’ai serré la main du diable], qui n’a jamais été traduit en italien, est un texte essentiel qui gêne l’Occident, la France en premier, car il en a dénoncé la relation étroite avec les responsables du génocide. C’est grâce aussi à ce général canadien que l’Onu a finalement reconnu le «génocide», par ce terme.
L’événement qui a déclenché les massacres, presque un prétexte, a été l’abattement à Kigali du jet privé Falcon du président Juvenile Habyarimana, au pouvoir depuis 1973.  Un missile sol-air frappa le 6 Avril 1994 le vélivole, qui entre autres lui avait été offert par Mitterrand. L’épouse du président du Rwanda fut évacuée et mise en sécurité par les troupes françaises. Les auteurs de l’attaque étaient inconnus. Quelques-uns accusent les Tutsis, d’autres les Hutus à cause des ouvertures du président Habyarimana à l’égard de la minorité Tutsi. Quoi qu’il en soit, les violences se déclenchèrent quelques heures plus tard. Quel est votre avis à ce  sujet?

C’est les papiers qui parlent. Selon une première enquête sur l’attentat, coordonnée par le juge français Jean-Louis Bruguière, étant donné que des citoyens français étaient parmi les victimes, l’avion a été abattu par un missile tiré par la guérilla du Front de Libération Nationale, c’est-à-dire de l’armée Tutsi de l’actuel président du Rwanda, Paul Kagame, dont les membres étaient postés sur la colline de Masaka, à environ 3,5 kilomètres de l’endroit de l’accident. En novembre 2006 Bruguière transmit neuf mandats d’arrêt contre autant de hauts dirigeants du Front, y compris le même Kagame.
Mais les deux juges français titulaires de la nouvelle enquête, Nathalie Poux et Marc Trévidic, ont présenté en 2012 un rapport balistique montrant que « sans aucun doute »  les missiles ont été tirés du camp militaire sur la colline de Kanonbé, alors sous le contrôle des forces armées rwandaises. Cela signifie que c’est des militaires Hutus qui ont tiré.
Votre livre, dès son titre, se réfère à la «mauvaise mémoire». Nous avons vu dans l’expérience de l’Holocauste, et avant dans celle du peuple arménien, que faire face à la mémoire représente un drame dans le drame. Comment les Rwandais vivent-ils la mémoire de la tragédie? De quelle façon est-il possible de construire un processus de réconciliation?

Le génocide au Rwanda présente une grande différence par rapport à ceux des Juifs et des Arméniens : les victimes et les bourreaux, qui souvent habitaient à côté l’un de l’autre, ont été obligés de retourner vivre ensemble dans les mêmes territoires. Ils ont continué à vivre près d’un assassin, de plusieurs assassins. Avec l’horreur que chacun de nous porte en soi, avec des nuits souvent bourrées de cauchemars terribles à cause de la violence épouvantable subie par notre peuple.

Immédiatement après le génocide il fallait tout reconstruire, partant de zéro. 90% de la population avait tué. On n’avait même plus de magistrats et d’avocats pour juger. Mais on nécessitait surtout d’une sorte de psychanalyse collective. Et le risque de vengeance n’était pas indifférent, des  vengeances se sont produites, et il fallait protéger les témoins.

Nous sommes alors repartis de notre identité, des coutumes les plus anciennes. Et un rôle essentiel a été joué par les Gacaca, les tribunaux populaires de la tradition africaine, réintroduits légalement non pour punir quelqu’un, mais dans l’objectif de reconstituer le tissu social de la communauté.

Les activités des tribunaux ont lieu en plein air, sur les pelouses, et sont gérées par les sages des villages; aux travaux participent toutes les familles impliquées dans le procès, alors que les juges, les inyangamugayo,  doivent ne pas avoir pris part au génocide. Les peines consistent en général dans les travaux sociaux, le dédommagement par des produits alimentaires ou la détention. Le degré de la peine peut être réduit s’il existe une confession. Une fois les débats terminés on organise souvent un déjeuner de réconciliation
Alors que les crimes les plus atroces – la planification du génocide, les massacres, les viols, les tortures sexuelles – ont été jugés par des tribunaux nationaux et internationaux, les Gacaca se sont occupés dans la plupart des cas des meurtres, des lésions personnelles et des crimes contre le patrimoine.

Ces tribunaux ont principalement servi à montrer que les Rwandais peuvent se débrouiller tous seuls, mais également à ne pas laisser les gens pourrir en prison : huit ans après le massacre, sur cent mille prisonniers, seulement 6% d’entre eux avaient été jugés. En outre, les Gacaca ont été utiles pour documenter ce qui s’est passé et donner aux survivants une possibilité de savoir comment sont morts leurs parents, amis ou proches. L’image de couverture de mon livre se réfère à l’un de ces tribunaux populaires: c’est grâce à ces séances psychiatriques de masse que renaît le Rwanda.

En ce qui concerne la mémoire, à mon avis tout doit se calibrer sur les jeunes. Ils sont l’espoir d’un avenir commun, où doivent s’éloigner les ressentiments, bien que les menaces soient toujours présentes, notamment pour ceux qui vivent hors de notre pays et qui ont l’intention d’y revenir. Les jeunes incarnent l’espoir d’un peuple qui ne s’identifie plus par l’origine ethnique, mais par la nationalité.

Il est positif de maintenir, physiquement aussi, des « lieux de mémoire », bien que choquants, ayant été laissés exactement comme ils apparaissaient après le massacre. L’an dernier je me suis rendue à Nyamara, petite église située à 35 kilomètres de la capitale Kigali où le 10 avril 1994 furent massacrées 2.500 personnes, et de nombreux crânes sont exposés. Chaque fois que je me rends au Rwanda je vais visiter un lieu de mémoire, mais un seul endroit à la fois, c’est le rythme que je peux supporter. L’endroit le plus choquant est Murambi : ici en 1994 une école était en cours de construction et des dizaines de milliers de Tutsis s’y rassemblèrent  en quête de protection, incités par les autorités civiles et religieuses. Mais c’était un piège: la milice arriva pour massacrer 27.000 personnes au moins. Les Français ont par la suite ré-ouvert le cimetière commun avec un peu d’argile qui put arrêter la décomposition des corps. Aujourd’hui des milliers de corps sont exposés sur des bancs en bois à l’intérieur des salles de classe. Le contraste entre la beauté des lieux et le massacre est frappant.
Dans quelles conditions se trouve aujourd’hui le Rwanda?

C’est un pays où la situation économique et sociale s’est énormément améliorée. Il en ressort un espoir répandu et surtout un grand désir de travailler. L’attente de vie a doublé depuis 1994, la scolarisation est obligatoire jusqu’à l’âge de treize ans, les deux tiers de la population a moins de 15 ans. On a beaucoup travaillé pour lutter contre la corruption, pour promouvoir la méritocratie, pour donner de la place aux femmes, qui sont majoritaires au Parlement et siègent dans les ministères-clé.

Le Rwanda est en pleine croissance, il est net et optimiste. Bien sûr, les pauvres sont encore nombreux, mais de 60% ils ont diminué jusqu’à 45% au cours de la dernière décennie, selon les statistiques officielles.

C’est un pays où mon mari rwandais et moi souhaiterions retourner vivre. Mais nous avons un fils né à Rome, qui se sent romain, s’exprime dans le dialecte romain et est supporter de l’équipe de la Rome.  La possibilité de vivre au Rwanda l’inquiète car l’idée qu’il s’est fait de l’Afrique en général est celle que lui transmettent les médias italiens. Qui voudrait vivre dans un endroit où ne se produisent toujours et seulement que des malheurs? Mais heureusement, dans notre dernier voyage au Rwanda, il a eu la possibilité de constater une réalité très différente. Cela lui a fait changer d’avis.
Un film et un livre bien faits pour se documenter et comprendre plus en profondeur?

Mon film préféré est Quelques jours en avril du haїtien Raoul Peck, film pour la télé de 2005. On pourrait croire qu’il a été réalisé par un Rwandais  qui a connu toutes les nuances de l’histoire. Pas de faits sensationnels, mais le récit simple et honnête du génocide. Il  raconte l’histoire de Augustin Muganza, ancien officier de l’armée du Rwanda et enseignant actuellement, d’origine Hutu, et de sa femme Tutsi. Je signale également l’activité du cinéaste Gilbert Ndahayo, un survivant du Rwanda qui réalise des ouvrages intéressants.

Parmi les livres j’en ai apprécié un qui vient de paraître : La Gloire des imposteurs, écrit par Boubacar Boris Drop et Aminata Dramane Traoré. Il met l’accent sur ​​le concept de ‘françafrique’ et réfléchit plus en général sur ​​les guerres d’Afrique.

 

 

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Le procès « historique en France : condamné pour génocide un ancien capitaine

 

L’ancien capitaine de la garde présidentielle rwandaise et ancien officier des services secrets, Pascal Simbikangwa, âgé de 54 ans et depuis 1986 immobilisé sur une chaise roulante, a été condamné en février 2014 par un tribunal français à  25 ans de prison pour le génocide au Rwanda. C’est la première fois que la France juge un présumé coupable du génocide au Rwanda.

Arrêté en 2008 dans le territoire français de Mayotte, il a été accusé de complicité dans les crimes contre l’humanité et jugé sur la base du principe de « compétence universelle », qui permet de juger un étranger pour des actes commis à l’étranger dans le cadre des crimes les plus graves. Ont défilé devant lui les témoins du massacre, parmi les pires drames du XXè siècle.

L’Onu a créé le tribunal pénal international pour le Rwanda, qui a son siège en Tanzanie. Une soixantaine de personnes de premier plan y ont été jugés. Actuellement c’est un contingent de paix rwandais qui a cherché d’éviter le même drame dans la République Centrafricaine.

 

(per la traduzione in francese si ringrazia la dott.ssa Anna Tito per la collaborazione)

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