La Commissione europea, nelle sue stime di crescita per quest’anno e per il prossimo, conferma, dunque, l’amaro ultimo posto del nostro Paese tra gli Stati membri. Le previsioni parlano di un aumento del prodotto interno lordo italiano dello 0,9 per cento nel 2017 e dell’1,1 per cento nel 2018. Perfino la Grecia quest’anno dovrebbe crescere, in percentuale, tre volte l’Italia. Il Portogallo quasi il doppio. E la Spagna ha chiuso il 2016 con una crescita del Pil quasi quattro volte quella italiana.
A ciò si sommano le preoccupazioni per il trend di altre due emergenze nazionali: il debito pubblico e la disoccupazione. Per il primo, le prospettive sono di ulteriore rialzo, nonostante i proclami ottimisti dei governi degli ultimi anni: secondo Bruxelles, nel 2018 questa zavorra che limita gli investimenti potrebbe toccare il 133,3 per cento del Pil (che la Commissione europea imputa al sostegno del settore bancario da parte del governo, cioè all’ormai celebre “scudo” da 20 miliardi di euro), contro il 132,8 “reale” del 2016 e una previsione italiana al 130,1 nel 2018 contenuta nel Documento programmatico di bilancio. Non andranno meglio i numeri della disoccupazione, che per il 2017 indicano una sostanziale stabilità all’11,6 per cento, rispetto ad un calo medio della zona euro dello 0,5 per cento.
Ma la gracilità del nostro apparato economico è ben personificata, in questa fase, anche da altri fattori quali le difficoltà del sistema bancario, affrontate con colpevole ritardo, e l’intermittente allarme dello spread, raddoppiato in meno di un anno. E per non farci mancare alcunché, su questo quadro poco esaltante pende la rilevante spada di Damocle di una procedura comunitaria per debito eccessivo. Scatterà in primavera qualora siano ritenute insufficienti le contromisure adottate dal ministro Padoan, cioè gli interventi correttivi richiesti dalla stessa Commissione per 3,4 miliardi di euro (forse meno, i dati dell’Istat sul Pil del 2016 potrebbero far scendere l’impegno di circa 500 milioni di euro).
Al di là dei numeri – impietosi – secondo noi emergono indiscutibili responsabilità di politica economica e fiscale in capo agli ultimi governi, nonostante siano stati avvantaggiati da una favorevole congiuntura internazionale (buone dinamiche dell’euro, crollo dei costi energetici, quantitative easing adottato all’inizio del 2015 dalla Banca centrale europea di Mario Draghi, intervento che ha contribuito a determinare un risparmio di 17 miliardi di euro solo nel 2016 e di ben 47,5 miliardi nell’ultimo quadriennio per interessi sul debito) e nazionale (esiti positivi del programma di contrasto all’evasione fiscale, 19 miliardi di maggiori entrate nel solo 2016).
In sostanza s’è persa l’occasione per orientare le risorse economiche al rilancio della crescita per mezzo di un preciso disegno organico in una prospettiva generale, in cui noi riteniamo sia centrale la ripresa della produzione attraverso il sostegno all’innovazione e all’internazionalizzazione delle imprese, il miglioramento dell’istruzione professionale e della formazione (con particolare attenzione a quella continua, anche per ridurre il mismatch, cioè lo squilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro), la sburocratizzazione della macchina amministrativa e della giustizia (elemento di freno degli investimenti internazionali), la digitalizzazione della pubblica amministrazione, il rilancio dell’edilizia attraverso la manutenzione e la riqualificazione dell’esistente, la lotta all’evasione e alla criminalità, ecc.
Viceversa, more solito, le risorse sono finite, oltre che per l’abituale mantenimento dei privilegi e per garantire l’apparato bancario e finanziario, in azioni frammentarie e dal grande effetto mediatico, guidate da una forsennata ricerca di consenso. Esemplari le esose e confuse politiche dei “bonus” finiti nelle tasche di lavoratori dipendenti, certamente già privilegiati rispetto alle enormi sacche di precariato (provvedimenti risultati per giunta insufficienti nel rilanciare i consumi delle famiglie, per la Banca d’Italia la transizione in consumi non ha superato il 40 per cento). O l’eliminazione di tasse sulla prima casa, indubbiamente apprezzabili per le ricadute sociali, ma meno per quelle macroeconomiche. O ancora gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni, senza tracciare una strategia complessiva di trasformazione ecologica dell’economia. Di contro, sono cresciute le disuguaglianze e si sono allargati i bacini di emarginazione e di povertà. E nel lavoro deregolamentato, sono esplosi i fenomeni della Gig Economy, i cosiddetti “lavoretti”, e dei vouchers, volati oltre quota 71 milioni nel 2015 secondo i dati dell’Inps.
Certo, non sono mancate apprezzabili iniziative a favore delle imprese, dall’eliminazione dall’Irap dei redditi di lavoro all’assegnazione agevolata dei beni ai soci, dalla riduzione dell’aliquota Ires al 24 per cento alla decontribuzione per i nuovi assunti, che però nella temporaneità ha avuto un effetto meteora. Le misure di detassazione e di incentivazione fiscale, anche qui con una logica a pioggia e senza una strategia costante e coraggiosa, hanno sostanzialmente fallito nel far recuperare al Paese quel 25 per cento di imprese perso negli anni più acuti della crisi. Ma la cura del tessuto produttivo resta l’unica via d’uscita dalla recessione e dalla deflazione per rilanciare la crescita, l’occupazione e, di conseguenza, i consumi.