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Il “Draghificio”, tra balletti di irresponsabili e tempesta perfetta

Sergio Mattarella (foto Quirinale.it)

“Balletto degli irresponsabili” lo definisce Paolo Gentiloni su Twitter. Un balletto che “può provocare una tempesta perfetta” aggiunge il commissario europeo. Perché comunque la si pensi su Mario Draghi, “Salvatore della Patria” – di quella “Povera Patria” per dirla con Franco Battiato – o “Uomo dei Poteri forti”, la politica di questo Paese con molto sadismo e irresponsabilità ha voluto imboccare comunque il tunnel buio della crisi. “Surreale”, come la definisce oggi Massimo Franco con efficacia sul Corriere della Sera, parlando della “nemesi di un populismo in declino” e addossando le colpe al Movimento Cinque Stelle quale “apripista” e al centrodestra per “il colpo di grazia”.

Anche Draghi, che pure ha ben operato sulle tre emergenze – sanitaria, economica e sociale – indicate dal presidente Sergio Mattarella nel febbraio 2021 nonostante l’infelice congiuntura internazionale, viene di fatto sfiduciato da chi quel patto l’aveva sottoscritto, cioè pentastellati, berlusconiani e leghisti.

S’è aperta con i “botti”, di fatto, la campagna elettorale. E l’interesse nazionale, ribadito da numerosi esponenti del mondo civile con i tanti appelli pro-Draghi (dai sindaci ai sindacati, dalle associazioni fino agli esponenti religiosi) è rimasto inascoltato. Qualcuno maligna che la linea indulgente verso la Russia abbia alla fine prevalso su quella atlantista. Il vero problema è l’ennesimo tassello di discredito internazionale e capire quanto un Paese superindebitato e spesso inaffidabile come il nostro “potrà godere del credito delle cancellerie europee e delle istituzioni finanziarie senza lo scudo di Draghi”, come evidenzia lo stesso Franco.

S’avvia comunque alla chiusura una delle legislature più anomale e infruttuose degli ultimi decenni. Un quinquennio “tronco”, nato sul trionfo dell’antipolitica – anche con buone ragioni di fondo – e di un movimento estremamente eterogeneo, non a caso dalle continue scissioni. Un movimento che ha governato sia con la destra sia con la sinistra, rinnegando tante promesse elettorali e promuovendo molti provvedimenti di stampo populista, certamente lontani da quelle riforme strutturali di cui il Paese ha urgente bisogno. Il suo provvedimento-bandiera, il costoso reddito di cittadinanza, alla prova dei fatti è stato un fallimento perché il collegamento con il mondo del lavoro non ha funzionato. L’altro “coniglio dal cilindro”, il Superbonus edilizio, scritto “senza discrimine e senza discernimento”, com’ha chiosato Mario Draghi, sta lasciando sull’orlo del baratro decine di migliaia di imprese del settore, con tanti cantieri interrotti a cielo aperto.

Ma la legislatura ha accentuato soprattutto la crisi della politica, la sua distanza ormai abissale dalla maggior parte dei cittadini. L’incapacità di governare è stata emblematica durante la settimana per l’elezione del Capo dello Stato e il ricorso al solito “tecnico” dall’eccellente curriculum e lontanissimo dall’agone politico. Una crisi espressa anche dalla crescita del fronte del “non voto” nelle urne di tutta Italia e che lascia fratture profonde all’interno degli stessi partiti.

La Lega, in calo di consensi, è di fatto divisa tra la muscolosa e “putiniana” linea tenuta ormai da tempo da Matteo Salvini, ancora prevalente per quanto molto consumata (secondo i sondaggi, consensi più che dimezzati dalle europee), e quella moderata di Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia. Ed ha il problema, non secondario, di difendere le sue roccaforti al Nord dai proficui assalti di Fratelli d’Italia, che ha prevalso in molti comuni alle recenti elezioni amministrative. La vicinanza della Lega a Forza Italia serve anche a questo, a bilanciare i numeri crescenti del partito di Giorgia Meloni.

Nel Pd, fermo da tempo intorno ad un 20 per cento nei sondaggi, ci sono i fautori del “campo largo”, cioè dell’allargamento ai Cinque Stelle, da Enrico Letta a Francesco Boccia fino a Nicola Zingaretti che vedeva in Conte “un punto imprescindibile per i progressisti” (nella Giunta laziale ci sono da mesi assessori pentastellati) e coloro che invece non hanno mai visto bene l’alleanza con i grillini, come Dario Franceschini e Lorenzo Guerini.

Il Movimento Cinque Stelle, il vincitore assoluto delle ultime elezioni politiche, dopo torcicollo e flessioni è ormai esploso in una serie di scissioni e rivoli, dal nuovo soggetto filogovernista guidato da Luigi Di Maio fino ai “duri e puri” di Gianluigi Paragone, passando per Giuseppe Conte con i nuovi panni dell’ideologia massimalista.

Se la sinistra ha il problema di raggiungere i numeri per governare, anche perché le potenzialità di Matteo Renzi e Carlo Calenda restano un mistero, il centrodestra (sempre più destra e meno centro) – dato per favorito – presenta tante contraddizioni al proprio interno che accendono molti dubbi sulla coesione necessaria per governare. La fuoriuscita dei ministri Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini da Forza Italia la dice lunga non solo sulle fratture interne, ma principalmente sulla discordanza di fronte ad una linea penalizzante per i moderati.

L’amara fine del governo Draghi conferma un problema di fondo dello scenario istituzionale italiano, in fondo evidenziato già da Niccolò Machiavelli: la politica da noi, salvo rare eccezioni, è interesse di parte. E’ estremamente litigiosa. Soprattutto è incompatibile con i governi di unità nazionale, che all’estero invece funzionano e anche a lungo. Il governo Draghi è durato meno di un anno e mezzo, più o meno come quello di Mario Monti. Durò ancora meno un altro governo di emergenza, quello di Giulio Andreotti, nato il giorno del sequestro di Aldo Moro.

L’ultimo paracadute per questo disastrato Paese si chiama Sergio Mattarella. Speriamo che basti.

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