
Si definisce un liberale classico e un montessoriano. Il professor Pietro Paganini, che insegna presso la Fox School of Business della Temple University di Philadelphia e la John Cabot University di Roma, è un acuto osservatore dei nostri tempi. I suoi frequenti interventi nelle trasmissioni televisive, principalmente nell’interessante “Omnibus” su La7, sono caratterizzati sempre da competenza, buon senso e ironia quanto basta.
Sulla previdenza, ad esempio, ha sempre denunciato “l’apparato di burocrati che protegge il sistema previdenziale”, anche per ragioni elettorali, un freno a mettere in piedi un quadro di regole pensionistiche nel lungo periodo. Secondo Paganini, la strada da percorrere è tecnicamente la capitalizzazione dei contributi dei lavoratori “che andrebbero accumulati e investiti nel mercato per poi restituirli ai contribuenti al momento della pensione. In questo modo verrebbe raggiunto il doppio obiettivo per lo Stato di disporre della liquidità sufficiente per effettuare investimenti mirati, controllati e sicuri mentre i futuri pensionati potrebbero godere di un importo superiore rispetto a quello che andrebbero a riscuotere”, come ha scritto su Formiche.
Sulla scuola, in uno dei suoi costanti pezzi sul Sole 24 Ore, ne evidenzia la distanza dal mercato del lavoro e più in generale dal quotidiano evolvere dei fatti e delle relazioni sociali. La strada per avvicinare le due realtà, secondo il professore, è quella di affrontare il problema dalla prospettiva del mercato e chiederci cosa i vari attori vogliono dalla scuola e quanto queste eventuali richieste riflettano coerentemente quella che è la missione della scuola stessa.
Chiara anche la posizione sul prossimo referendum del 29 marzo per la riduzione del numero dei parlamentari: il professor Paganini è uno dei promotori del primo “Comitato per il Si al taglio dei parlamentari”, spiegando che “ridurre il numero degli eletti rende più trasparenti e più comprensibili dibattiti e decisioni, senza sminuirne la qualità”.
Paganini, con esperienze di insegnamento presso l’Università di Karlstad (Svezia), è il fondatore e il curiosity officer di “Competere – Policies for Sustainable Development – una piattaforma di professionisti che produce analisi e ricerche per innovare i processi produttivi e migliorare la qualità della vita e dell’ambiente in cui viviamo.
- Professor Paganini, quello libico è sempre più un rompicapo. Soltanto per semplificare si può ricordare che Turchia e Qatar supportano Serraj, mentre Emirati Arabi e Arabia Saudita armano Haftar. Ma sappiamo che la realtà è ancora più complessa. La conferenza di Berlino nello scorso gennaio, che ha tentato di stabilire una tregua tra le parti anche con un piano tedesco per l’embargo, in realtà sembra un fallimento. E’ così?
“La realtà libica è molto complessa perché, purtroppo, in nove anni dalla caduta del regime, come Italia abbiamo permesso che tutti i Paesi interessati – e sono tanti – si intromettessero e stabilissero e/o rafforzassero i legami con le tante fazioni che si sono andate formando nel tempo. Oggi, 2020, sembra davvero difficile mettere d’accordo tutte le – tante – parti. Berlino ne è la dimostrazione. Non ci sono solo le fazioni da accontentare verso un governo di unità nazionale, ma anche tutte le nazioni che sostengono una o l’altra. L’ingresso della Turchia, poi, ha reso la situazione ancora più complicata, considerando che il suo non è un sostegno politico o finanziario esterno, ma è direttamente sul campo. Comunque non definirei Berlino un fallimento, ma un’occasione per comprendere che la soluzione è difficile da trovare, e le parti giocano con le carte coperte alzando la posta”.
- La spaccatura nei Paesi del Golfo non può essere, certo, dettata dal petrolio, essendo tutti produttori, piuttosto da ragioni geopolitiche. Un ruolo importante lo riveste l’islam, in particolare l’atteggiamento favorevole o contrario verso i Fratelli musulmani. Potrebbe offrirci delucidazioni su questo argomento?
“Ci sono sempre ragioni economiche. Un produttore debole rafforza gli altri, e comunque questo avviene in un momento di tante forti tensioni geopolitiche. La quasi assoluta autonomia energetica degli Usa – di cui si parla troppo poco – e la crisi venezuelana hanno trasformato lo scenario. Non va dimenticato che, l’ingresso della Turchia in Libia risponde all’esigenza turca di tenersi un ruolo forte nel Mediterraneo anche e in conseguenza del gasdotto che da Israele salve verso l’Europa centrale, in concorrenza con quello russo-turco. La Turchia vuole il tratto di mare libico. A questo si aggiungono le divisioni all’interno dell’Islam. Qatar, Arabia, Egitto, etc. hanno interessi opposti, ma anche visioni molto diverse che si manifestano nel sostegno a tribù tra loro in contrasto”.
- C’è chi prevede che la guerra libica potrebbe diventare più pericolosa di quella siriana. Lei che ne pensa?
“Quella libica è una guerra civile a tutti gli effetti. Non trovo altra definizione. In quanto guerra non la ritengo molto diversa da quella siriana. Forse cambia l’attenzione mediatica, il numero delle vittime, il tipo di armi usate, ma la sostanza resta la stessa, purtroppo. Il tempo che passa ne determina il peggioramento. L’incapacità o l’impossibilità di trovare una soluzione rende la prospettiva molto pericolosa. Non sappiamo cosa succederà. Di fatto, si evitano interventi militari perché si temono conseguenze imprevedibili o addirittura inintenzionali. Le tribù non vogliono un intervento alcuno così come probabilmente, un atto di forza scatenerebbe delle vendette politiche o addirittura terroristiche che alcuni paesi, come l’Italia, non si possono permettere”.
- Veniamo all’Italia. Il ruolo del nostro Paese sembra sempre più marginale. Eppure per decenni siamo stati il principale partner economico di una nazione ricca di materie prime. Quali sono stati i principali errori di questi nove anni di abulia da parte dei governi italiani?
“La strada per una soluzione è sempre più stretta. Perché si sono gettate le occasioni migliori avute. Dobbiamo pensare a come risolvere i problemi non al passato, ma in questo caso, dobbiamo anche addossare le responsabilità ha chi ha fatto scoppiare la polveriera e a chi non ha mai voluto risolverla in modo risoluto. I francesi sono responsabili della situazione, va detto e ricordato. I governi italiani si sono sempre ben guardati dal risolverla quando la situazione era meno rovente. Basta ricordare il rifiuto di nominare Romano Prodi quale commissario voluto dalle parti libiche. Eccetera”.
- Quale potrebbe essere la via per stabilizzare la polveriera libica?
“L’unica strada che l’Italia ha è dedicarsi alla questione e metterla come priorità 1, mandare più truppe in territorio libico per sedare gli scontri, e obbligare le parti alla soluzione condivisa. L’Italia è forse l’unica nazione a poterlo fare, essendo la più presente storicamente e la più vicina sentimentalmente. Ma occorre determinazione e volontà politica. Che non c’è. Significa anche prendersi il rischio delle conseguenze inintenzionali di una pace forzata. Significa anche controllare geopoliticamente la zona”.
- Per chiudere, un accenno al memorandum d’intesa sulla migrazione tra Italia e Libia, rinnovato automaticamente per altri tre anni. L’accordo, come noto, prevede che l’Italia aiuti le autorità marittime della Libia a fermare imbarcazioni in mare e a riportare le persone a bordo nei centri di detenzione libici, dove spesso avvengono violenze, come denunciano numerose organizzazioni umanitarie. Che ne pensa?
“Il memorandum a queste condizioni non va bene, ma non ci sono alternative. Resta un cane che si morde la coda. Per cambiarlo occorre un partner locale credibile e stabile. Non firmandolo si alimenterebbe maggiore confusione, traffico di migranti, cattiva percezione in Italia ed Europa. La situazione va risolta a monte con la determinazione di cui parlavo ma di cui gli ultimi governi di questo paese sono sprovvisti”.
