
Quanto e come si spende per la scuola in Italia? È la domanda centrale della ricerca compiuta dalla Fondazione Agnelli nel pieno della campagna elettorale. Emergono, tra i dati reali, tanti luoghi comuni confermati e smentiti.
Il primo dato, emblematico, smentisce la diceria dei pesanti tagli all’istruzione. Anzi, dopo un decennio in cui la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado hanno più o meno mantenuto stabile la spesa pubblica italiana come percentuale del PIL, dal 2020 ha addirittura ripreso a salire. E il dossier ribalta anche un altro luogo comune: quello per cui in Italia si spenderebbe meno nell’istruzione rispetto ai partner europei: per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado la spesa pubblica italiana – come percentuale del PIL – è allineata alla media europea e molto simile a quella di Paesi come Germania e Spagna. La quota di spesa pubblica sul PIL si abbassa unicamente per l’università (poco più dello 0,3 per cento).
La differenza fra l’Italia – che nel 2020 in aggregato ha speso il 4,3 per cento del suo PIL in istruzione – e la media europea del 4,9 per cento è data perciò quasi interamente dalla minore spesa per l’università.
Per istruire ogni singolo studente tra i 6 e i 15 anni – corrispondenti grosso modo alla fascia dell’obbligo – il nostro Paese spende circa 75.000 euro PPP (Parità di poter d’acquisto, cioè, corretti per le differenze del costo della vita tra Paesi): sopra la media europea e quella dei paesi Ocse.
Ad incidere sugli elevati costi è soprattutto la spesa per il personale, cresciuto addirittura del 20 per cento nell’ultimo decennio. E qui s’impone un altro paradosso: decrescendo il numero degli studenti, come mai aumentano i costi per i docenti e gli impiegati generici della scuola?
Innanzitutto, in premessa, va detto che il corpo insegnante è sensibilmente cambiato nella sua composizione interna. Nonostante le grandi immissioni in ruolo della Buona Scuola che li aveva portati a 730mila, sono oggi leggermente diminuiti gli insegnanti di ruolo (poco meno di 700mila), principalmente per via dei pensionamenti; sono invece più che raddoppiati i docenti a tempo determinato: l’anno scorso 225mila, incluso il sostegno, rispetto ai 100mila subito dopo la Buona Scuola. E soprattutto, per rispondere alla forte domanda di inclusione scolastica, sono aumentati gli insegnanti di sostegno. In dieci anni il loro peso sul totale del corpo insegnante è passato dal 13 al 21,5 per cento: oggi sono dunque più di un quinto del totale. Va, però, sottolineato come l’aumento del personale di sostegno sia avvenuto grazie al crescente impiego di docenti a tempo determinato (in dieci anni passati dal 39 al 61 per cento del totale del sostegno), la stragrande maggioranza dei quali, però, non sono in possesso di una specifica preparazione, con rischi gravi non solo per la continuità didattica, ma per la qualità del processo di inclusione degli allievi con disabilità.
“Questi sono dati – commenta Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli – che fanno riflettere. Forse in Italia per la scuola più che spendere poco semmai si è speso male, alla luce dei risultati di apprendimento insoddisfacenti, nelle scuole secondarie nettamente inferiori della media europea, e con enormi divari territoriali e sociali. È un campanello d’allarme per chi governerà. A partire dall’efficacia e dall’efficienza con le quali si sapranno gestire le risorse del Pnrr per gli investimenti sulla scuola”.
Altro luogo comune affrontato dal lavoro della Fondazione Agnelli: è vero che le retribuzioni degli insegnanti italiani sono più basse degli altri Paesi europei? In questo caso, la diceria è confermata. Le retribuzioni dei docenti italiani sono inferiori a quelle della maggioranza degli altri Paesi europei. Mentre nei primi anni di professione la forbice retributiva a sfavore dei nostri docenti non è enorme (25mila euro circa in Italia, con Francia, Portogallo e Finlandia comunque sotto i 30mila euro, con la Germania, però, nettamente sopra i 50mila euro), la differenza nel corso degli anni di lavoro si accentua sensibilmente. Le retribuzioni dei docenti italiani sono, infatti, poco dinamiche, in quanto legate completamente al meccanismo di anzianità, senza alcuna progressione di carriera, che in altri Paesi porta chi sale di responsabilità a massimi retributivi talvolta molto elevati.
La Fondazione Agnelli, però, ricorda che – caso praticamente unico in Europa – il contratto di lavoro dei docenti italiani quantifica in pratica solo le ore di lezione. Ad esempio, per un professore delle superiori sono 18 alla settimana: a queste si aggiunge un forfait di altre 80 ore nel corso dell’anno lavorativo (quindi circa altre due alla settimana) per attività di programmazione, aggiornamento, ricevimento dei genitori. La preparazione delle lezioni e tante altre attività non strettamente di lezione, ma decisive per l’efficacia dell’insegnamento, non sono invece incluse nel contratto, al contrario di quasi tutti gli altri Paesi. Tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare (dati Ocse Talis 2018, relativi alla secondaria di I grado) 26 ore alla settimana, contro una media europea di 33 ore.
“Gli insegnanti italiani – conclude Gavosto – vanno sicuramente incentivati con retribuzioni superiori e più dinamiche, che li avvicinino ai loro colleghi europei, introducendo anche progressioni di carriera e responsabilità. Anche i loro orari contrattuali, tuttavia, dovrebbero andare verso medie europee, per garantire un tempo scuola più lungo e diffuso, didatticamente più ricco, con una qualità dell’insegnamento elevata e sempre aggiornata, grazie a una formazione continua obbligatoria”.