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Università: La no tax area e la grande crisi dell’università italiana*

Le università italiane sono vuote. Se aumenta infatti la quota degli italiani che a 19 anni possiede un diploma, soltanto il 61% di questi si iscrive all’università, circa 3 punti in meno rispetto al 2010 e addirittura 17 punti rispetto a un quarto di secolo fa. Non solo, secondo i dati diffusi dall’Eurostat,  l’Italia si piazza al penultimo posto di persone laureate in un’età compresa tra i 30 e i 34 anni con il 26,2%, dietro soltanto alla Romania la cui quota si aggira  intorno  al 25,6%. Inoltre, sempre nel nostro Paese, un’alta percentuale di giovani abbandona l’istruzione in un’età compresa tra i 18 e i 24 anni. Una vera e propria strage che se proseguisse ci manterrebbe, per obiettivi e risultati,  ben lontani da tutti gli altri membri dell’Unione Europea.

La strategia Europa 2020, avviata nel 2010 dalla Commissione Barroso, fissa obiettivi vincolanti per tutti i paesi membri su otto indicatori socio-economici di estrema importanza per il progresso dell’Unione. I principali indicatori presi in considerazione sono: occupazione, ricerca, istruzione, povertà, clima ed energia. Per quella data, l’Unione Europea nel suo complesso deve arrivare ad avere il 40% dei laureati compresi tra i 30 ed i 34 anni ed una percentuale trascurabile, ovvero inferiore al 10%, di persone prive di diploma secondario. Per l’Italia gli obiettivi da raggiungere sono ben più bassi, il 26% di laureati compresi nella fascia in questione, e ridurre al 16% la quota degli abbandoni scolastici prima del diploma. Ai dati del 2016, l’Unione Europea sembra aver già quasi raggiunto l’obiettivo con il 39,1% dei laureati compresi in quella fascia, circa 15,5 punti percentuali in più rispetto a 15 anni fa. Anche il tasso di abbandono scolastico è quasi in linea, al 10,7% dei giovani contro il 17 di quindici anni fa. L’obiettivo dell’Italia sembra quindi quello di accontentarsi dell’ultima posizione aggravando così il distacco con gli altri paesi, visto che il target fissato del 26-27% dei laureati rimane comunque il più modesto in tutta Europa. Anche con l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea l’ultima posizione italiana rimarrebbe invariata, visto che anche questo Paese supererà a breve l’Italia per percentuale di laureati arrivando al 30% nel 2020. L’Italia dunque manca di ambizione ponendosi  il target più basso di tutta Europa per il 2020. Questo con il valore di partenza al 2012 pari al 21,7%, e parlando comunque di un Paese membro del G8, che farebbe pensare a ben altra crescita in termini di laureati. Obiettivo poco attraente ed in controtendenza con i Paesi che negli anni della crisi hanno proprio investito nell’istruzione per favorire la ripresa in un tasso di tempo più breve. Ancora più grave se si analizza la situazione italiana attuale, con una crescita del PIL prevista tra l’1,3% ( Centro Studi Confindustria) e l’1,4% (Bankitalia) e con stime in rialzo rispetto a quelli di qualche mese fa che vedevano l’Italia in crescita dell’1% nel 2017. Un paese in crescita ha infatti bisogno di quadri formati ed in grado di accelerare il progresso tecnologico e sociale. La mancanza di un’offerta adeguata alla domanda di lavoratori specializzati potrebbe frenare il tasso di crescita.

Secondo l’indagine dell’Istituto di Ricerca Economia e Società in Sicilia (RES), Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud,  negli ultimi anni si sono verificati cambiamenti profondi nella secolare storia del sistema universitario italiano. Ne derivano non pochi elementi di criticità, tanto per il presente quanto per il futuro, sotto almeno tre aspetti rilevanti: la dimensione dell’università italiana; la sua articolazione territoriale; la sua qualità.

L’Italia ha quindi fortemente disinvestito nella sua università, intraprendendo praticamente il percorso opposto rispetto a tutti gli altri paesi avanzati dell’Unione Europea. Quando infatti, durante la crisi, Paesi come la Germania accrescevano del 23% il finanziamento pubblico per l’Università, l’Italia contraeva del 22% il proprio investimento, in quota anche superiore rispetto ai paesi mediterranei più colpiti dalla crisi. Anche la spesa per il personale docente universitario fra il 2008 e il 2013 si è ridotta del 15% e del personale di pubblico impiego del 4%. Un drastico calo che ci riporta ai livelli di inizio secolo. In riferimento all’istruzione terziaria nel 2015, la spesa pubblica italiana è rimasta ferma allo 0,4%, mentre gli altri paesi dell’Unione Europea spendono in media l’1,1%, circa tre volte tanto (lavoce.info, 2017). Mentre l’intera spesa pubblica per l’istruzione è pari al 4,6% del PIL, con la Danimarca che ci supera di ben 3 punti percentuali, in testa alla classifica (Dati Istat 2014).

Un calo di risorse che per quanto ben gestite potrebbe essere la causa principale dell’abbassamento di qualità del nostro sistema universitario. Come infatti mostra l’ultima classifica stilata dal “The-Times Higher Education”, e uscita poche settimane fa, fra le migliori università al mondo la prima italiana è la Scuola Superiore Sant’Anna al centocinquantacinquesimo, insieme alla Normale di Pisa, al centoottantaquattresimo posto, sole tra le prime 200. Naturalmente andrebbero discussi anche i criteri di valutazione di queste classifiche, che molto spesso tendono a favorire alcune tipologie di università rispetto ad altre, ma in ogni caso il risultato rimane deludente.

Questo è uno dei principali motivi che porta gli studenti italiani a scegliere l’estero per completare i propri studi accademici, sono infatti  60.000 i ragazzi che studiano all’estero: 42.000 gli iscritti in atenei europei oltre confine (dati Fondazione Migrantes 2011).

L’innalzamento della tassazione è un altro dei motivi principali del calo di iscritti nelle nostre università. Secondo il Rapporto della Fondazione RES infatti, tra il 2004/05 e il 2013/14, a parità di potere d’acquisto, le rette universitarie italiane sono incrementate  del 57,5%., in comparazione con Paesi come la Danimarca, la Finlandia, la Svezia, la Norvegia e Malta, dove l’istruzione universitaria è considerata un diritto e quindi gratuita per tutti i cittadini. Ancora più significativa  la situazione della Germania, che allontanando l’idea di un sistema di stampo britannico, ha optato nel 2014 per un sistema di istruzione solido e completamente gratuito, seguendo l’esempio dei Paesi scandinavi, non solo per gli studenti tedeschi ma anche per gli studenti stranieri. L’obiettivo era proprio quello di attirare gli studenti stranieri ed aumentare il numero di iscritti alle università che solo nel 2015 sono arrivati a circa 2,7 milioni. L’obiettivo del provvedimento del 2014 è semplice, ritornare alle origini, garantendo un’istruzione solida senza dover pagare e nel pieno rispetto quindi del principio delle pari opportunità.  Oggi chi frequenta  un’università pubblica in Germania,  dovrà affrontare praticamente un unico costo, ovvero quello del Semesterticket, un biglietto il quale comprende  un titolo di viaggio per i mezzi pubblici per 6 mesi ad un prezzo addirittura inferiore di un normale abbonamento. A Berlino nel 2017 il Semesterticket costa per esempio 311,59 €, di cui 198,80 € sono per il titolo di viaggio. Anche in Austria il governo, col supporto dei due partiti estremi a sinistra e a destra, ha abolito nel 2008 le tasse per l’iscrizione all’università, rispettando in questo caso gli impegni presi nella campagna elettorale del 2006 per una pubblica istruzione libera e gratuita, che prima erano apri a poco meno di 750 euro. In Francia invece, la tassazione c’è ma non è comunque alta se comparata ai forti sussidi di cui godono gli studenti. Nel paese transalpino, si pagano infatti 184 euro per le triennali e 256 per le magistrali, con un sistema di tassazione progressivo all’italiana, a seconda del reddito familiare o del singolo,  con sussidi che raggiungono i 5551 euro l’anno, di cui né godono circa il 36% dei giovani.

L’Inghilterra rimane il paese più costoso d’Europa con rette universitarie che si aggirano tra i 10 218 e i 10 567 euro, ma nonostante ciò rimane una delle mete più ambite dai giovani europei e specialmente da quelli italiani con un 20% di immatricolazioni in più nel 2014 rispetto agli anni precedenti, come scrive Antonella De Gregorio, sul Corriere della Sera.

Il problema del calo degli iscritti è anche accentuato dalla scarsa fiducia che gli italiani ricoprono nella laurea, considerata da molti soltanto un pezzo di carta con il quale non è poi così scontato trovare lavoro. Una sfiducia compensata dai numeri, infatti secondo un’indagine dell’Eurostat del 2014, poco più del 50% degli italiani compresi tra i 20 e i 34 anni trova  lavoro entro tre anni dalla laurea, nettamente sotto la media europea dell’80,5%  e con particolare  riferimento alla Germania la percentuale sale al 93,1%.

Ne emerge un quadro d’emergenza, dove l’Italia, in piena controtendenza rispetto agli altri paesi, a visto diminuire drasticamente gli iscritti alle università e conseguentemente i laureati. Inoltre, la diminuzione del finanziamento pubblico non è stata sufficientemente sostituita da nuovi finanziamenti privati, questo ha portato ad un taglio costante del personale docente con conseguente diminuzione della qualità d’insegnamento e della ricerca oltre che strutturale.

La soluzione non sta di certo nel limitare l’istruzione accademica a pochi studenti, come invece a provato a fare anche la facoltà di studi umanistici dell’Università Statale di Milano con l’introduzione del numero chiuso, decisione poi bocciata dal Tar del Lazio per il quale l’assenza di un numero sufficiente di docenti non può rientrare tra le cause previste dalla legge n° 264 del 1999 per l’introduzione del numero chiuso, visto inoltre che le facoltà umanistiche non sono inserite nell’elenco di quelle che possono accedere ai regolamenti.

In Italia, la tassazione è molto più alta della Francia,  in una media che va da 1262 euro all’anno al massimo di 2086, con contributi statali che sono garantiti solo per il 9,3% degli studenti, e vanno  da un minimo di 1925 euro annui ad un massimo di 5108. Il governo con l’ultima legge di bilancio ha in realtà cercato di invertire la  tendenza al rialzo della tassazione universitaria stanziando 55 milioni per il 2017 e 110 per il 2018 per sopperire alle minori entrate delle università che verranno colpite dalla “no-tax area”. Grazie a quest’ultima, tutti i nuovi immatricolati con un Isee inferiore a 13mila saranno esenti da tasse, per chi supererà questa soglia ma non i 30000 annui dovrà pagare al massimo 1100 euro. Questo provvedimento nel suo totale andrà a coprire un totale di 655mila studenti. Oltre alla situazione economica, l’accesso alla no tax area dipenderà da requisiti di merito. Infatti, per chi è già iscritto e vuole beneficiare del nuovo provvedimento, dovrà dimostrare di aver acquisito almeno 10 crediti dal primo anno e 25 dal secondo anno ed è ammesso solo un anno fuori corso. Per chi va più di un anno fuori corso la tassazione sarà incrementabile di al massimo un 50%. Primi passi si cominciano a fare nel senso di una ripresa del sistema accademico italiano, ma molti altri se né dovranno fare, sia per favorire una cultura di massa ma anche per garantirne la qualità, se si vuole riportare l’università italiana ai vecchi splendori.

*di Christian Battistoni, stage Torno Subito in collaborazione con la Regione Lazio.

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