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Il Covid e i “non produttivi”

C’è un capitolo delle cronache dei lunghissimi mesi infestati dal coronavirus che spesso manca. È quello delle persone più fragili, del tutto dimenticate nonostante abbiano subìto doppiamente l’emergenza.

L’imperativo “state a casa”, ad esempio, è apparso amaramente sarcastico per i tanti senza fissa dimora. Soprattutto nelle grandi città, svuotate dal lockdown, è cambiato poco negli assembramenti di nullatenenti sotto i ponti, nelle baraccopoli, vicino alle stazioni.

Non è andata meglio ai tanti bambini e ragazzi, soprattutto nel Mezzogiorno, che, con la pur utile didattica a distanza, sono stati tagliati fuori dalle lezioni per la mancanza di attrezzature informatiche e collegamento ad internet. Realtà certamente meno grave rispetto ai bambini di Paesi come Afghanistan, Somalia o Yemen, dove non andare a scuola significa rinunciare all’unico pasto del giorno. Da sottolineare anche strascichi sulla parità di genere: nelle abitazioni di molte nazioni, il solo computer in casa viene di solito destinato al figlio maschio e non alla figlia femmina.

Il periodo ha accentuato le difficoltà per i disabili, mettendo a repentaglio i servizi di supporto e le loro stesse vite, e privandoli di relazioni umane ravvicinate. La stessa cosa è successa agli anziani e agli immunodepressi.

L’infelice uscita del presidente della Liguria, Giovanni Toti, che in un Tweet autunnale ha scritto che gli anziani “non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” (intendendo che, per tutelarli, possono tranquillamente essere messi in lockdown), oltre a suscitare un vespaio di polemiche, ha acceso un esteso dibattito sui rapporti tra terza età, Covid e società. Peggio ha fatto a dicembre 2020 il presidente di Confindustria Macerata, Guzzini, auspicando le aperture “e pazienza per i morti”, costretto alle dimissioni per l’infelice uscita.

Stabilire una sorta di clausura imposta dall’età, tra l’altro di difficile attuazione, pone innanzitutto dei problemi di natura etica. Specie nel nostro Paese, dove ciò che resta della cultura rurale patriarcale assicura, innanzitutto e giustamente, il rispetto e la riconoscenza per chi ha i capelli bianchi.

Altrettanto infelice la dichiarazione dell’ex premier Conte che degli anziani ha elogiato principalmente il ruolo di protagonisti nel boom economico a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta.

Certo, lo “sforzo produttivo” è importante per la vita individuale e collettiva di tutti. Compresa la sua salvaguardia. Ma il lavoro deve conservare intrinseco il valore della nobilitazione dell’uomo, preservando gli insegnamenti dell’ora et labora di San Benedetto da Norcia, connubio tra realizzazione e spiritualità. Senza morale, senza regole né steccati, perderemmo le componenti base della stessa civiltà, faticosamente costruita e difesa. Martin Luther King sosteneva che il capitalismo corre il rischio di ispirare gli uomini ad essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere. E gli adepti di quello che un tempo veniva chiamato “capitalismo senz’anima” sono smentiti da una condizione innegabile: gli ultrasettantenni, con pensioni e rendite, sono ottimi consumatori.

Certo, il Covid, sorta di virus classista e spartano, costituisce una falcidia soprattutto per i più deboli. L’età mediana dei decessi, nell’autunno 2020, è di 80 anni, quella dei ricoveri in terapia intensiva è di 63 anni. Preservare queste categorie equivale a rafforzare quegli strumenti e quei servizi di welfare che proprio le logiche dei tagli indiscriminati hanno depotenziato.

In fondo, poi, siamo certi che siano più utili alla società certi giovani imprenditori rampanti, che si muovono ai limiti del cinismo e dell’illegalità, rispetto a certi anziani che rappresentano dei fari di saggezza? Quanti imprenditori di quel tipo possono competere con attempati artisti capaci, da un palcoscenico, di estendere il senso delle nostre vite?

Tra i “dimenticati” vanno annoverati anche i malati di altre infermità. Negli ospedali, l’estensione dei reparti Covid, ha limitato quelli per le altre patologie, facendo saltare esami diagnostici e cure, in particolare per malati oncologici e cardiaci. Il coronavirus è stato quindi deleterio per tutti i malati gravi, orfani di visite, diagnosi e terapie. È stato funesto per i malati cronici e per gli affetti da malattie rare. Molti ambulatori hanno cancellato le visite ritenute “non urgenti”, anche appuntamenti prenotati da mesi o semplici esami di controllo. Una situazione che ha determinato le cosiddette “morti parallele”.

Per molti genitori separati è stato più difficile raggiungere i figli, così come molti fidanzati residenti in differenti località non si sono potuti riunire per il blocco della mobilità. Molti hanno dovuto rinviare i matrimoni o altre cerimonie religiose.

Drammatica la situazione dei tanti lavoratori “in nero”, specie degli ambulanti a cui sono stati cancellati i mercatini di sussistenza. Per loro, autentici fantasmi, nemmeno i bonus dell’Inps.

Tanti gli immigrati che, privati del lavoro, si sono ritrovati anche senza permesso di soggiorno.

Il Covid-19, come tutte le pandemie, è una dramma per i detenuti, chiusi e stipati nelle celle, senza collegamenti con le famiglie. Le rivolte in numerosi penitenziari in tutta Italia sono iniziate il 9 marzo 2020 a Foggia, con 72 evasi. Poi Treviso, Torino, Rovigo, Potenza, Modena, Napoli, Milano San Vittore, Bologna e Bari. Cinquanta gli istituti coinvolti, quattordici i detenuti morti. Totalmente dimenticati.

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