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FOCUS / Iran: petrolio, crisi e contraddizioni

L’Iran, paese con circa 80 milioni di residenti suddivisi in 31 province, è tornato al centro delle attenzioni internazionali per il riaccendersi di tensioni sia sul fronte esterno, principalmente con gli Stati Uniti, sia su quello interno, dove si prolunga la fase di preoccupante incertezza.

Gli Usa della presidenza Trump, come noto, da oltre un anno hanno annunciato una “nuova strategia” per l’Iran. Lo scorso 8 maggio hanno ufficializzato la fuoriuscita dall’accordo sul nucleare (Jcpoa, Joint comprehensive plan of action) e hanno quindi ripristinato le sanzioni contro lo Stato islamico: una prima tranche è partita lo scorso 6 agosto, la seconda dal prossimo 5 novembre. L’obiettivo dell’amministrazione Trump è l’isolamento economico di Teheran per alimentare un mutamento di regime a livello politico. In fondo gli Usa non sono nuovi a questi tatticismi.

Nei giorni scorsi, però, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja, con un’inaspettata pronuncia, ha ingiunto agli Usa di rimuovere alcune delle sanzioni contro l’Iran sia per ragioni umanitarie sia per rispettare l’accordo di amicizia Usa-Iran del 1955, tuttora attivo.

Le sentenze della Corte internazionale, benché vincolanti, non sono però applicabili contro la volontà del diretto interessato, per cui la vittoria rimarrà puramente simbolica per la repubblica islamica.

Tuttavia il regime iraniano, pur continuando ad aderire all’accordo sul nucleare, non intende subire passivamente. Al di là della retorica sull’autarchia alimentare, non ha escluso l’ipotesi di riprendere il proprio programma di arricchimento nucleare, una minaccia finalizzata sia a scongiurare ulteriori misure punitive da parte degli Usa sia ad incentivare i Paesi europei ad intensificare i canali commerciali attivati in seguito alla firma dell’accordo.

L’Europa, infatti, non ha abbandonato il Paese islamico, che possiede il 18% delle riserve mondiali di gas naturale e l’11,3% di quelle petrolifere. Un atteggiamento che sta facendo infuriare il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che nei giorni scorsi ha anche annunciato di voler mettere fine al “trattato d’amicizia” del 1955 con l’Iran.

A difendere le relazioni comunitarie con Teheran è stata principalmente l’alta rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini. Circa un anno fa, proprio dopo il cambio di strategia statunitense, fu lei, seduta al fianco del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, ad annunciare che gli Stati membri dell’Ue avrebbero istituito “un’entità legale per facilitare transazioni finanziarie legittime con l’Iran”. Si tratta del cosiddetto “Special purpose vehicle” o “Spv”, cioè di un sofisticato meccanismo – una sorta di permuta – che garantisce la possibilità di continuare a comprare il petrolio da Teheran, aggirando le sanzioni statunitensi.

Nonostante la tenuta in vita di questi canali commerciali, lo Stato asiatico – che costituisce la diciottesima economia mondiale – non riesce a superare la fase di forte crisi sia economica sia politica che lo attanaglia da tempo.

Nonostante la favorevole posizione geografica, il buon andamento demografico (oltre il 60% della popolazione ha età inferiore ai 30 anni), i conti pubblici in ordine (l’indebitamento è pari ad appena il 13,1% del Pil) e un momento di buona crescita in termini macroeconomici grazie al petrolio, il rovescio della medaglia è rappresentato dall’accentuarsi delle differenze sociali (alcune zone restano preda della povertà, mentre a fronte di uno stipendio di oltre tremila euro per membri di governo, la media per un lavoratore è di appena 170 euro), dall’alta disoccupazione (intorno al 13%, ma quella giovanile arriva al 30%), dall’aumento dei prezzi (nell’ultimo anno soprattutto di benzina e uova e dei generi d’importazione) a causa del grave deprezzamento della moneta (il “riyal”) e della fine delle politiche di sussidio. Secondo le previsioni di molti osservatori internazionali, nei prossimi anni in Iran rischia di accentuarsi la recessione.

Ma lo spettro più temuto è quello di un nuovo isolamento economico e politico internazionale, specie dopo gli sforzi compiuti dal Paese per ritagliarsi un ruolo di negoziatore e garante degli equilibri nella regione con la crisi siriana. Tra questi ricordiamo l’invio di propri consiglieri militari e di rifornimenti bellici al fianco di Bashar al-Assad, la partecipazione al processo negoziale di Ginevra sulla Siria patrocinato dalle Nazioni Unite, la partecipazione al processo negoziale alternativo patrocinato dalla Russia ad Astana fino alla decisione di tenere proprio a Teheran il summit sulla Siria del 7 settembre scorso tra Iran, Russia e Turchia.

L’altro spettro è sul fronte interno, dove è crescente il dissenso contro il presidente Hassan Rouhani.

Un malcontento reso visibile anche dai numerosi movimenti di contestazione esplosi in questi mesi, dalle proteste delle classi meno abbienti a fine 2017 fino alla cosiddetta “protesta dei bazar” della scorsa estate, che ha visto i commercianti serrare i propri punti vendita. A complicare il quadro anche il fallimento di banche clandestine che prestavano soldi ad alti interessi e che hanno lasciato sul lastrico molte famiglie.

L’elemento però realmente destabilizzante sembra essere rappresentato dalle lotte di potere interne alle élite per emarginare il presidente Rouhani, ritenuto l’artefice di una pericolosa apertura all’Occidente attraverso riforme economiche, politiche e sociali che, se da un lato stanno facendo uscire Teheran dall’isolamento e garantiscono flebili investimenti esteri (alle banche iraniane è di fatto precluso l’accesso al mercato finanziario internazionale principalmente per timori terroristici), dall’altro sta alimentando pericolosi focolai ideologici. Non a caso grandi imprese come Total, Peugeot e Siemens stanno lasciando il Paese.

In queste turbolenze è tornato ad avere un ruolo anche l’ex presidente Mahmud Ahmadinejad, uscito dalla scena politica iraniana nel 2013 perché artefice di una tra le più importanti crisi economiche e politiche dell’Iran post-rivoluzionario. La sua “corrente dei devianti”, decimata dagli arresti per corruzione, sembra oggi tornare di scena e lo stesso Ahmadinejad, impossibilitato a correre per la presidenza a causa del veto imposto dal Consiglio dei Guardiani, è tornato protagonista con le invettive contro il presidente in carica che potrebbero intercettare l’insofferenza e l’insoddisfazione di gruppi sociali sempre più estesi.

Ma il problema più insormontabile per la rottura dell’isolamento internazionale riguarda il rispetto dei diritti umani. Per combattere la radicata corruzione di recente sono stati istituiti persino dei tribunali speciali che non rinunciano ad emettere condanne a morte per reati finanziari. L’avvocato iraniano Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003, viaggia dieci mesi all’anno in tutto il mondo per denunciare la violazione dei diritti umani nel suo Paese. Punta il dito soprattutto contro gli sperperi: l’Iran ha investito ingenti risorse nella guerra in Siria e finanzia da anni gli Hezbollah libanesi e i ribelli Houthi yemeniti. Tutto ciò anziché convogliare risorse al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini.

(G.C.)

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