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La Turchia delle turbolenze economiche e politiche

La Turchia, nazione musulmana con circa 80 milioni di abitanti (14 milioni residenti nella sola Istanbul, quasi 5 milioni ad Ankara, 3 milioni a Smirne sul Mar Egeo), corrisponde in massima parte al vasto altopiano della penisola anatolica, che in più punti s’innalza in catene montuose imponenti. Gli ottomila chilometri di coste sono distribuiti tra il Mar Mediterraneo e il Mar Nero.

La posizione a cavallo tra Asia ed Europa (di cui però fa parte soltanto per il tre per cento del territorio) le garantisce una funzione strategica politica ed economica in entrambi i continenti. Non a caso il paese sin dagli anni Ottanta aspira a far parte dell’Unione europea, benché negli ultimi anni con meno intensità, e riveste un ruolo centrale nel Medio Oriente. Emblematico il fatto che la Turchia accolga oltre quattro milioni di rifugiati vittime dei conflitti in Siria e nel Kurdistan iracheno, distribuiti in 28 campi gestiti direttamente dal governo turco: una realtà che pone il paese al centro di continui negoziati con i governi confinanti e con la stessa Unione europea per prevenire le ondate migratorie nel vecchio continente.

IL SUPERPOTERE DI ERDOGAN. Sul piano politico la scena turca è dominata da oltre quindici anni dall’Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo), formazione laica conservatrice e liberale, filo-occidentale e inizialmente filo-statunitense, benché ricca di contraddizioni e ambiguità. S’è imposta nelle ultime cinque tornate elettorali (2002, 2007, 2011, 2015 e 2018), accrescendo spesso le proprie percentuali: dal 34.3 per cento del 2002 ha raggiunto il 52,6 per cento nelle elezioni anticipate del 24 giugno 2018, quando però s’è presentata insieme ai nazionalisti dell’Mhp.

Leader incontrastato dello scenario politico turco è il presidente Recep Tayyip Erdoğan, che ha rafforzato il suo ruolo attraverso la riforma costituzionale presidenzialista approvata con il referendum di aprile 2017, di cui lo stesso Erdoğan è stato artefice. Grazie a ciò, il presidente potrebbe rimanere in carica fino al 2028 in virtù della possibilità di correre per un ulteriore mandato. Tra l’altro è stata abolita la figura del primo ministro.

Tra i superpoteri del presidente vi è l’emanazione di decreti con effetto di legge, la nomina dei vertici delle forze armate, dell’intelligence, del consiglio di sicurezza nazionale, dell’accademia di polizia, di parte dei giudici della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, delle alte cariche delle istituzioni e dei rettori delle università.

Molto criticata anche la nomina del genero del presidente, Berat Albayrak, a ministro dell’Economia e delle Finanze, un atto di nepotismo che ha messo in agitazione anche i mercati internazionali.

Nonostante questo apparente rafforzamento della stabilità politica, il paese resta preda di forti polarizzazioni e caratterizzato da una continua instabilità su più fronti.

Soltanto due anni fa il presidente Erdoğan ha rischiato di essere rovesciato da un tentativo di colpo di Stato messo in atto da una parte delle forze armate turche. Nel contempo il rafforzamento del sentimento nazionalista continua ad accentuare la frattura con la comunità curda, che costituisce circa il 16 per cento dell’intera popolazione turca.

Sul fronte estero, è sempre più profondo lo strappo con Washington, in passato principale alleato e partner commerciale. Tra le cause, la mancata estradizione richiesta con insistenza da Ankara agli Usa del predicatore islamico Fetullah Gülen, considerato il responsabile del fallito colpo di stato del luglio 2016. Una crisi acuita dalla lunga detenzione del pastore americano Andrew Brunson, poi rilasciato, accusato di essere affiliato all’organizzazione di Gülen. Ma i dissidi hanno origine anche militare: da una parte il sostegno statunitense alle milizie curde in Siria, dall’altra la decisione turca di acquistare il sistema di difesa missilistico russo S-400, incompatibile con i sistemi utilizzati dalla Nato, di cui il paese è membro dal 1952. La conseguenza sono i pesanti dazi decisi dal presidente americano Donald Trump di adottare dazi su alcuni prodotti turchi, in particolare sull’acciaio e sull’alluminio.

L’allontanamento dagli Usa sta avvicinando il paese euroasiatico verso Russia e Cina: il colosso asiatico ormai primeggia tra i fornitori di Ankara.

LE TURBOLENZE ECONOMICHE. Se negli ultimi quindici anni la ricchezza nazionale si è più che triplicata (crescita media del 5 per cento annuo, con picchi del 9,2 e dell’8,8 per cento rispettivamente nel 2010 e nel 2011), tanto che la Turchia è stata definita “la tigre del Bosforo”, è altrettanto vero che ciò è stato sostenuto dal debito, soprattutto per realizzare grandi opere (come il tunnel euroasiatico, i ponti sul Bosforo, l’aeroporto internazionale di Istanbul). Tra l’altro i creditori sono quasi tutti europei, banche in prima linea (l’italiana Unicredit, la spagnola Bbva e la francese Bnp Paribas tra le più esposte): soltanto nel 2014 gli investimenti esteri sono stati pari a 12,5 miliardi di dollari.

Secondo i dati del ministero dell’Economia e delle Finanze, a fine marzo 2018 il debito estero lordo della Turchia era di 466,67 miliardi di dollari, pari al 52,9 per cento del Pil. Nel tentativo di stabilizzare la situazione economica, a metà settembre è giunta la decisione della Banca centrale di alzare i tassi di interesse dal 17,9 al 24 per cento, addirittura in contrasto con la politica del presidente Erdoğan.

Certo, l’attuale crescita continua ad essere sostenuta (più 7,4 per cento nel 2017, però con un preoccupante rallentamento al più 5,4 per cento previsto per quest’anno). Va bene anche il turismo: con oltre 30 milioni di visitatori all’anno, la Turchia si pone al sesto posto dei paesi più visitati al Mondo, subito dietro all’Italia.

Ma numerosi altri elementi preoccupano: il deficit della bilancia commerciale resta enorme (6 per cento del Pil, il più elevato tra le economie emergenti del G20); il debito delle famiglie oggi vale più del 50 per cento del reddito disponibile delle stesse; l’inflazione è arrivata al 25 per cento ad ottobre 2018; i prezzi dei generi sono in rapida salita; il tasso di disoccupazione resta elevato, a giugno 2018 era al 10,9 per cento; i salari medi non superano i 400 euro al mese; le differenze tra città e campagna restano marcate.

Tutto è accentuato dall’instabilità della moneta, la lira, con rituali fluttuazioni molto spericolate sui mercati valutari, che confermano un’economia in affanno. Da gennaio ad ottobre la divisa turca è arrivata a perdere il 40 per cento del proprio valore e solo il fatto che la Banca centrale della Turchia ha lasciato invariati i tassi al 24 per cento a fine ottobre, mirando alla stabilità dei prezzi, sta evitando il peggio.

IL PROBLEMA DEI DIRITTI UMANI. Una realtà non trascurabile in un paese come la Turchia è la violazione dei diritti umani. Come denuncia Amnesty International, lo stato d’emergenza fa da cornice alle repressioni del dissenso in modo spietato colpendo, tra gli altri, giornalisti (oltre un centinaio quelli che hanno subito il carcere), attivisti politici e difensori dei diritti umani. Perdurano le segnalazioni di episodi di tortura, anche se in numero inferiore rispetto a quelle delle settimane successive al tentato colpo di stato del luglio 2016.

Dopo il tentato colpo di stato, il governo ha approvato leggi senza il vaglio effettivo del parlamento e dei tribunali. Oltre 50mila persone sono state trattenute in custodia preventiva con l’accusa di appartenere all’organizzazione terroristica Fethullah Gülen, che le autorità ritengono responsabile del tentato colpo di Stato. Persino la magistratura è stata decimata dai licenziamenti o dall’arresto di un terzo dei giudici e dei pubblici ministeri.

Anche per il referendum del 2017 non sono mancati abusi: le forze contrarie alla consultazione hanno denunciato di aver avuto spazi ridottissimi negli organi d’informazione controllati dallo Stato e che era stato loro impedito di manifestare la loro opposizione in pubblico. Le autorità hanno respinto le accuse d’irregolarità nel conteggio dei voti.

Amnesty International rileva che le critiche al governo sono ampiamente scomparse da radio, televisione e carta stampata e il dissenso è stato per lo più limitato ai mezzi d’informazione on-line. Il governo ha continuato a usare ordini amministrativi di blocco, senza di fatto possibilità di appello, di solito per censurare contenuti on-line. Le autorità hanno bloccato l’accesso all’enciclopedia on-line Wikipedia, a causa di una pagina che riportava la notizia di possibili collegamenti tra il governo turco e diversi gruppi armati in Siria.

Altre pesanti denunce vengono dalle comunità omosessuali.

(G.C.)

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