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Calo demografico, nel 2050 il 21% di lavoratori in meno

Se il tasso di occupazione rimanesse fermo al livello attuale, senza aumentare la partecipazione al lavoro degli inattivi, per i semplici effetti del calo demografico nel 2030 il numero di lavoratori in Italia diminuirebbe del 5%, nel 2050 addirittura del 21,2% (con un vero e proprio crollo del -30% per i 45-54enni). Di fronte a una popolazione in riduzione costante, con sempre più anziani e meno giovani, e quasi metà di inattivi, lo scenario economico e sociale nei prossimi decenni appare insostenibile. Se invece il tasso di occupazione italiano si omologasse a quello medio dell’UE, nel 2030 l’offerta di lavoro riuscirebbe ad aumentare del 10,3%; se raggiungesse quello della Germania balzerebbe al +23,5%, quello della Svezia al +29,2%. E nel 2050, se applicassimo il tasso di occupazione odierno della Germania, i lavoratori italiani aumenterebbero del 2,3%, se applicassimo quello della Svezia 7,9%: anche nell’ipotesi “svedese” al 2050 rimarrebbe il forte calo delle coorti centrali di 35-55 anni, ma aumenterebbero di quasi il 1000% gli occupati oltre 75 anni.

Sono le stime di Randstad Research – centro di ricerca sul lavoro promosso da Randstad – nel suo rapporto “Gli inattivi: quali prospettive di fronte alle grandi sfide?”, l’indagine che chiude il ciclo di ricerche dedicate al tema degli inattivi, con un’analisi sul lavoro non dichiarato, l’invecchiamento attivo e la sostenibilità del sistema al 2030 e al 2050. Il “collo di bottiglia” del sistema a causa del calo demografico – rivela Randstad Research – cambia se si ipotizzano variazioni nei tassi di partecipazione al lavoro. Se l’Italia oggi avesse il tasso di occupazione della Germania, gli occupati sarebbero 30 milioni invece dei 23,2 milioni attuali; se avesse quello della Svezia, 31,5 milioni. Nel 2030 in Italia, con i tassi di occupazione attuali dell’UE, della Germania o della Svezia gli occupati sarebbero rispettivamente 25,6 milioni, 28,7 milioni o 30 milioni. Nel 2050 rispettivamente 21,3 milioni, 23,8 milioni o 25 milioni.

Come avvicinarci allora al livello degli altri paesi? Fondamentale riportare al lavoro almeno una parte dei 26 milioni di inattivi complessivamente stimati da Randstad Research. E un potenziale “nascosto” è rappresentato dal lavoro non dichiarato, perché sono ben 2,6 milioni i lavoratori sommersi che, riportati nella regolarità, potrebbero controbilanciare il tasso di inattività. Ma bisogna anche coinvolgere nel lavoro, oltre le donne, i giovani, gli uomini esodati, gli anziani, considerando che il numero di ultrasettantenni è destinato a crescere dai 10,5 milioni attuali a 15,4 nel 2050, ma l’Italia fa ancora troppo poco nell’invecchiamento attivo.

“Per favorire l’incremento occupazionale e produttivo del nostro Paese ci sono diverse leve su cui agire, afferma Alessandro Ramazza (in foto), direttore di Randstad Research. “Dall’aumento della spesa per l’istruzione e la formazione, alla ricerca di nuove opportunità per gli inattivi di cui ci siamo occupati in questo “viaggio”. Le donne, i giovani NEET e le persone anziane, che entro il 2050 passeranno da 10 a 15 milioni con condizioni di salute e intraprendenza sconosciute fino a poche decadi fa, dovranno essere il centro focale dei policy maker”.

I lavoratori non dichiarati. Oggi si contano 2,6 milioni di lavoratori “non dichiarati” in Italia, troppi sia per il potenziale recupero dell’evasione fiscale e contributiva che per il possibile miglioramento della situazione occupazionale di una regolarizzazione, ma anche per la qualità delle competenze offerte. Sebbene il tasso di lavoro non dichiarato in Italia nel privato sia di poco superiore alla media UE (12,9% contro l’11,6%), è molto più elevato rispetto alle grandi economie vicine (4,4% per la Germania, 8,8% per la Francia e per la Spagna).

Partendo dall’assunto che il settore pubblico non sia toccato del sommerso, Randstad Research stima un tasso di irregolarità complessiva sull’economia italiana del 9,9%, superiore a molti paesi UE come Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Francia, Grecia. Osservando il dato a livello regionale, per il settore privato, la variabilità è alta: al sud abbiamo tassi di irregolarità molto superiori, passando dalla Calabria, che ha un tasso pari al 20,9% al Veneto con il’8,5%.

La longevità. Gli anziani ultrasettantenni in Italia oggi sono 10,5 milioni, diventeranno 11,5 milioni nel 2030 e 15,4 milioni nel 2050, insieme al loro peso sulla popolazione complessiva. Ma in Italia, diversamente da altri paesi, solo un’esigua minoranza è lavorativamente attiva. Nel 2022 in Italia si contano circa 194 mila occupati ultrasettantenni, il 3,3% del totale, in maggioranza autonomi/indipendenti (solo il 15,4% è costituito da lavoratori dipendenti). Applicando il tasso di irregolarità medio del paese, gli occupati della coorte 70-79 anni potrebbero essere 218 mila e il tasso di attività passare dal 3,3% al 3,7%. Focalizzandosi nello specifico sulla coorte 70-74 anni, il tasso di attività maschile nel nostro paese è pari al 6,7%, molto inferiore rispetto a paesi al 42% del Giappone e 46,5%, della Corea del Sud, anche se maggiore di paesi simili come Francia (3,2%) e Spagna (2,8%).

L’invecchiamento attivo. Al di là della partecipazione al mercato del lavoro, in Italia è inferiore il livello di invecchiamento attivo (in senso individuale e sociale). Il nostro paese ha un punteggio basso – 35 punti -nell’Active ageing index dell’OMS relativo agli over 55, inferiore alla media europea (40,6), lontano da Svezia e Paesi Bassi (rispettivamente 12,8 e 8,7 punti di differenza). Siamo sotto la Germania, la Francia e il Belgio.

Da elaborazioni sull’indagine Share (ricerca europea ed internazionale) emerge che – salvo pochi indicatori – l’Italia è ai livelli più bassi di invecchiamento attivo: poca attività di volontariato (13% contro una media UE del 17,9%), bassissima frequenza di corsi d’istruzione o formazione (solo l’1,8%), poca partecipazione a club sportivi e sociali (13,1%) e partecipazione politica (5,3%). Ma siamo oltre la media UE nell’uso di internet (65,4%) e nella frequenza con cui i nonni si prendono cura dei nipoti. “L’Italia, ultima in Europa per occupati in età 70-79 anni, presenta basse percentuali in quasi tutti gli indicatori che rendono una persona attiva oltre al lavoro – rileva Colombo -. Il confronto con il paese-leader, la Svezia, mostra come tante persone ultrasettantenni potrebbero continuare a lavorare e, contemporaneamente, condurre attività supplementari”.

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