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Scorie del referendum

L’esito dei cinque referendum sta continuando ad alimentare sacche di acredine negli ambienti dell’opposizione.

In termini generali, una strategia ripetuta all’inverosimile, specie dagli esponenti del Pd (ordine di scuderia?) riguarda il numero dei voti: secondo un arzigogolato ragionamento esposto da molti esponenti del centrosinistra, soprattutto del Pd, che mischia pere con mele, i 13 milioni di “Sì” ai referendum sarebbero più dei “12 milioni” di voti ottenuti dal centrodestra nel 2022. Al di là che con lo stesso discutibile ragionamento l’invito a disertare le urne proferito dal centrodestra sarebbe stato quindi raccolto da oltre 33 milioni di italiani (tutti di destra?), numeri alla mano, le affermazioni dell’opposizione non sono vere.

I “13 milioni di Sì”, considerando anche gli 800mila “Sì” degli italiani all’estero (ma includendo anche loro il quorum finisce addirittura sotto al 30 per cento, rendendo più amara la sconfitta per i promotori delle urne), in realtà riguardano soltanto due referendum (primo e terzo quesito, licenziamenti illegittimi e contratti a tempo determinato). Gli altri due quesiti hanno ottenuto più di 200mila “Sì” in meno e addirittura quello sulla cittadinanza – che apre il più interessante dibattito politico – ha raccolto circa 10 milioni di “Sì”. In questi casi, quindi, siamo ben al di sotto dei 12 milioni e 700mila voti raccolti dal centrodestra alle ultime politiche, includendo anche quelli degli italiani all’estero.

Al di là dei numeri e delle percentuali, con l’unica verità incontrovertibile del fallimento dei cinque referendum (costato un’ottantina di milioni di euro agli italiani), resta il nodo dei contenuti.

Davvero sul lavoro si può riportare indietro, con il tentativo di un’operazione ideologica, le lancette della storia? Davvero c’è ancora chi pensa con logiche da anni Settanta, quando esistevano ancora grandissimi gruppi industriali in Italia, vi erano masse in lotta e la guerra fredda dominava la geopolitica, con gli avi di alcuni attuali oppositori che sognavano la rivoluzione bolscevica anche nel nostro Paese? Ci si rende conto che il mondo del lavoro da anni è in piena trasformazione, è ormai frammentato, tra multinazionali mobilissime che utilizzeranno sempre più a piene mani l’intelligenza artificiale e lavoratori sempre più orientati a conciliare lavoro e tempo libero, attenti al welfare e al benessere aziendale? Più che il problema del reinserimento di qualche lavoratore, non sarebbe il caso di concentrarsi sul taglio del cuneo fiscale per le aziende (dimostrato che riduce il peso della disoccupazione) e sul peso delle buste paga per i lavoratori?

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