
Le cosiddette “aree interne”, specie quelle montane, da sempre pagano un prezzo altissimo alla trasformazione dei modelli economici. Il declino dell’agricoltura, della zootecnia e dell’artigianato ha concorso a svuotare i nostri borghi: intere generazioni sono state calamitate prima dal boom industriale, non solo italiano, poi dalle opportunità offerte dal terziario e dal pubblico impiego centralizzato. Il modello urbanocentrico da oltre un secolo non conosce crisi: le città crescono e le campagne si svuotano.
Mentre da anni si promuovono dibattiti sul rilancio delle aree interne, con risultati però decisamente sterili, oggi, anche di fronte a numeri demografici sempre più impietosi, sembra prevalere una sorta di “presa d’atto”, se non proprio di rassegnazione. È ciò che emerge, ad esempio, dal Piano strategico nazionale delle aree interne, approvato dal ministro per le Politiche di coesione. Vi si legge: “Un numero non trascurabile di aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa, oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività”. Certo, oltre a sottolineare che “queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza”, si aggiunge che “non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse”. Cioè “hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita”. Insomma, una sorta di “dolce eutanasia”.
Il passaggio, per quanto intriso di realismo, ovviamente sta sollevando forti reazioni, caratterizzate da un diffuso sconcerto, specie in quelle aree interne nell’occhio del ciclone.
Anche perché a ciò si aggiungono fatti concreti: i tagli, per oltre 1,3 miliardi di euro, che stanno per abbattersi sui piccoli borghi. I commi 784–811 della manovra finanziaria introducono una serie di “sforbiciate” che potrebbero mettere ulteriormente a rischio la tenuta amministrativa di molti comuni. Ad esempio, il comma 796 prevede un taglio da 600 milioni di euro alle opere pubbliche per la sicurezza di edifici e territorio (dal 2028 al 2030), mentre il comma 798 fa sparire il fondo dedicato ai comuni sotto i 1.000 abitanti. Tagli anche dal comma 799, che prevede la riduzione dei fondi per la progettazione degli enti locali (meno 200 milioni nel 2025, meno 100 milioni/anno fino al 2031). C’è poi l’abrogazione del fondo investimenti previsto dalla legge di bilancio 2020 (comma 801), il taglio da 89,9 milioni al fondo per la sicurezza degli edifici pubblici nel periodo dal 2025 al 2027 (comma 802) e i tagli alla mobilità ciclistica tra il 2029 e il 2033 (comma 803).
Insomma, molti piccoli comuni sono ormai entrati in una spirale per cui i minori investimenti equivalgono a scomparsa dei servizi, con il risultato finale del maggiore isolamento amministrativo, dello spopolamento e della sfiducia nelle istituzioni.
Davvero il declino è ormai cronicizzato? Beh, il quadro demografico è impietoso: in un’Italia con sempre meno neonati e giovani, nei paesi restano soprattutto pensionati. In numero sempre minore. E l’immigrazione raramente riesce a compensare le perdite.
Qualche esempio? Dal 2001, la Basilicata ha visto la propria popolazione passare da oltre 600mila alle attuali 528mila unità. Il Molise è passato da oltre 320mila agli attuali 288mila residenti. La Calabria in questo lasso di tempo ha perso oltre 200mila residenti.
In questa situazione, collocare piccoli investimenti a pioggia nei borghi serve davvero a poco. Anzi, si rischia di gettare risorse alle ortiche.
Una strada percorribile è invece quella del monitoraggio delle iniziative virtuose che hanno portato a risultati: l’unico incontrovertibile dato è quello demografico. Laddove si riesce a mantenere stabile la popolazione, o addirittura ad incrementarla, lì le soluzioni adottate vanno inserite tra le buone pratiche talvolta replicabili altrove. Ed una delle strade quasi obbligate è quella del turismo, come riesce a fare impeccabilmente in particolare il Trentino-Alto Adige. Altra “ricetta” è quella di legare maggiormente la costa all’entroterra, sfruttando il richiamo del mare per orientare – ad esempio nelle giornate nuvolose – i villeggianti verso le bellezze dell’interno, come sanno ben fare lungo la costiera romagnola. Ed altre pratiche virtuose andrebbero individuate, classificate e adottate altrove.
UNSIC – Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori
