
L’argomento è complesso, specialistico e apparentemente di scarso interesse per molti cittadini, che non comprendono il senso di separare le carriere dei magistrati e soprattutto perché il dibattito sia così animato. Ma la riforma della giustizia caldeggiata dal governo e approvata in terza battuta alla Camera dei deputati con 243 sì e 109 no – spetterà al Senato l’ultima deliberazione, il quarto passaggio parlamentare perché modificherebbe la Costituzione (probabilmente servirà anche un referendum confermativo a causa del non raggiungimento dei due terzi dei componenti le Camere per l’approvazione) – in realtà è rilevante perché investe la nostra quotidianità. Premettendo che il Parlamento è ovviamente legittimato ad approvare a maggioranza una riforma costituzionale della magistratura, così come le opposizioni o la stessa magistratura a criticare un disegno di legge.
La separazione delle carriere, nel dettaglio, divide nettamente i magistrati inquirenti, cioè i pubblici ministeri che conducono le indagini, rispetto a quelli giudicanti, i giudici che emettono le sentenze. Di conseguenza, sarebbero differenti tra loro i concorsi di ammissione, diverse le norme interne regolanti le due distinte carriere e sdoppiato il Consiglio superiore della magistratura (Csm), l’organismo di autogoverno della magistratura, con un Csm per ciascuna delle due carriere.
La riforma prevede, inoltre, l’introduzione di un’Alta corte disciplinare per giudicare gli illeciti di entrambe le magistrature, stabilendo le relative sanzioni e introdurrebbe il sorteggio come metodo di elezione dei componenti dei Csm per evitare le attuali logiche delle correnti: oggi, su 33 membri del Csm, tre sono di diritto – il presidente della Repubblica, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione – dieci “laici” sono eletti dal Parlamento in seduta comune e ben 20 “togati” sono eletti dalla magistratura.
La riforma assume importanza soprattutto perché investe direttamente il ruolo della magistratura, cioè l’apparato giudiziario che applica le leggi, uno dei tre poteri dello Stato insieme a quelli legislativo ed esecutivo (la celebre “divisione dei poteri” teorizzata da Montesquieu ne Lo spirito delle leggi del 1748). In cui, nel nostro Paese, anche il Cnel di cui l’Unsic fa parte rientra pienamente in questi equilibri istituzionali.
L’articolo 104 della nostra Costituzione asserisce che la magistratura costituisce “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. E l’incipit della relazione governativa di accompagnamento al ddl giustamente richiama tale principio: “Questo disegno di legge costituzionale conferma la compiuta assimilazione tra i magistrati del pubblico ministero e i giudici rispetto alle garanzie offerte dai princìpi di autonomia e indipendenza: si tratta di un assetto che qualunque ipotesi di riforma ordinamentale deve rispettare”. E ancora: “Ferma restando, dunque, l’esigenza di non limitare in alcun modo l’indipendenza dei magistrati requirenti e giudicanti, si dà attuazione alla separazione delle loro carriere in modo conforme alla struttura più coerente con le regole fondamentali del processo penale, mantenendo altresì il presidio costituito dal Consiglio superiore della magistratura in una sua nuova duplice conformazione”.
Pertanto va sempre tenuto presente che la magistratura, in nome del popolo italiano, è un’istituzione fondamentale per garantire giustizia (ius-dicere) e tutelare i diritti, contribuendo al regolato vivere civile e al progresso sociale ed economico del Paese. L’alternativa sarebbe l’eversione.
Fatta tale doverosa premessa, in Italia, però, da diversi decenni, il rapporto della magistratura con gli altri poteri è spesso problematico: diversi governi l’hanno accusata di “politicizzazione”, di “invasione di campo” e di vere e proprie cospirazioni contro gli esecutivi. E non sono mancati scandali che ne hanno minato la credibilità, come la vicenda del magistrato Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati dal 2008 al 2012, poi espulso e rimosso dall’ordine giudiziario nel 2020 a seguito di una decisione del Csm.
L’apice della conflittualità è stato raggiunto sia nel corso di Tangentopoli, in particolare per il “trattamento” ricevuto da Bettino Craxi e per la funzione dei magistrati visti come “arbitri” della politica italiana a colpi di avvisi di garanzia, sia nei due decenni caratterizzati dalla presenza di Silvio Berlusconi ai vertici dello Stato, periodo in cui il centrodestra parlò di vera e propria “persecuzione” del Cavaliere da parte dei magistrati, con oltre una trentina di processi subiti.
In particolare, poco dopo il suo esordio in politica, nel 1994 Berlusconi ricevette un avviso di indagine a Napoli proprio durante il G8, con ampio battage mediatico e attenzione internazionale.
Ma anche in tempi recenti lo scontro è stato rilevante. Si pensi al tema dell’immigrazione e alle tante sentenze giudiziarie che non hanno convalidato i decreti del governo, fino al processo al vicepremier Salvini per la nota vicenda Open Arms, con assoluzione “perché il fatto non sussiste”, ma con l’appello della Procura alla Corte di Cassazione contro la sentenza.
La riforma Nordio-Meloni mira quindi non solo a favorire una maggiore specializzazione dei magistrati nelle rispettive funzioni, ma soprattutto ad evitare l’adesione incondizionata dei giudici sulle tesi dei pm, in particolare influenzati dalla loro precedente esperienza di inquirenti.
In un’ottica più garantista che forcaiola, la riforma mira ad evitare l’accanimento su alcuni imputati, soprattutto politici, ritenuti colpevoli anche con prove che poi si dissolvono. Esempi, in tal senso, sono innumerevoli: al di là dei tanti suicidi in epoca Tangentopoli, un’icona è quella dell’innocente Enzo Tortora, uno dei tanti che hanno pagato con una malattia fatale l’essere finiti nel tritacarne della giustizia.
Chi oggi, viceversa, si scaglia contro la riforma, soprattutto da sinistra, la vive come un attacco all’indipendenza della magistratura e quindi alla stessa democrazia, nonché come la subordinazione dei pm ai governi e una vendetta del centrodestra per il trattamento ricevuto principalmente da Craxi e Berlusconi.
In realtà, l’ipotesi di differenziare le funzioni dei magistrati è stata già presente nel dibattito in Assemblea costituente tra il 1946 e il 1947. Ed una prima separazione è stata attuata in occasione della riforma del Codice di procedura penale operata nel 1988 dall’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. Superando il compito precedentemente affidato al giudice istruttore di emettere una prima sentenza sulla base delle prove da lui stesso raccolte in fase di indagine, è stata affidata al giudice dell’udienza preliminare (gup) la sentenza di rinvio a giudizio in base alle accuse raccolte dal pubblico ministero. Fatta questa distinzione tra pm e giudice, molti “addetti ai lavori” – tra cui Giovanni Falcone e la maggior parte degli avvocati – hanno auspicato la distinzione anche delle carriere dei magistrati. Che ora potrebbe essere in fase di attuazione.
UNSIC – Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori
