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Il Rapporto Censis e la zavorra del debito pubblico

Per seguire l’evoluzione della società italiana il Rapporto Censis, giunto alla 59ª edizione, costituisce la migliore cartina al tornasole per leggere e interpretare i processi socio-economici dei nostri giorni. Annualmente il duo De Rita (padre e figlio), con i qualificati collaboratori, ci offre il microscopio – anche attraverso parole-chiave – per individuare i principali fenomeni con cui noi italiani dobbiamo fare i conti.

Quest’anno il contesto di “policrisi” nel quale ci siamo inoltrati (il Censis parla di “mondo a soqquadro” tra guerre, nazionalismi e protezionismi), schiettamente definito dal Rapporto “età selvaggia”, vede soprattutto i problemi dell’economia ad occupare la scena. Un dato è posto in evidenza: a causa del debito pubblico, ormai spendiamo più per interessi (85,6 miliardi) che per investimenti (78,3 miliardi). Se ne parla poco, ma un debito ormai ingente (oltre i 3.100 miliardi), insieme alla bassa crescita, legata all’invecchiamento demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento del welfare, come scrive l’istituto. E con una maggiore vulnerabilità dei servizi sociali, l’insofferenza è destinata a crescere, annientando anche quell’arte di arrangiarsi che ha sempre salvato una parte rilevante della popolazione. “Senza welfare le società diventano incubatori di aggressività e senza pace sociale le democrazie vacillano – rileva giustamente il Censis.

È la fotografia di un crinale sempre più pericoloso, che vede in particolare una diffusa precarizzazione e deindustrializzazione. L’organizzazione presieduta da De Rita ricorda che dal 2004 al 2024 il numero dei titolari d’impresa si è assottigliato da oltre 3,4 milioni a poco più di 2,8 milioni (meno 17%), con i giovani imprenditori (meno di 30 anni) diminuiti del 46,2%. E se il reddito delle piccole imprese (fino a 5 addetti) corrispondeva al 17,8% del Pil nel 2004, vent’anni dopo si è ridotto al 14%. Tutto ciò rischia di accentuarsi e di innalzare in particolare “la febbre” del ceto medio, fatta di pulsioni antropologiche profonde: “antichi miti e nuove mitologie, paure ancestrali e tensioni messianiche, veementi fedi religiose e risorgenti fanatismi ideologici, culture identitarie radicali, desideri di riconoscimento inappagati, suggestioni della volontà di potenza”. È l’irrazionale che avanza, per cui si elude la collettività (ciò spiega anche il boom dell’astensionismo) e ci si rifugia sempre più nel privato.

Il sondaggio del Censis è indicativo: il 55% degli italiani è convinto che la spinta del progresso in Occidente si sia esaurita e adesso appartenga a Cina e India; un italiano su tre ha sfiducia nell’Unione europea e il 53% crede che sia destinata alla marginalità in un mondo in cui vincono la forza e l’aggressività, anziché il diritto e l’autorità degli organismi internazionali. Ben il 74% non crede più nel “modello americano”. E soprattutto il 39% ritiene che le controversie tra le grandi potenze si risolvano mediante i conflitti armati, i cui esiti fisseranno i confini del nuovo ordine mondiale, con ben il 30% che ritiene le autocrazie più adatte allo spirito dei tempi.

Sarebbe ora che la politica abbandoni gli slogan e ricorra alle forze migliori per affrontare seriamente il declino.

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