Dal 1 febbraio, il Regno Unito è formalmente uscito dall’Unione Europea. Anche se si parla di Brexit dal 2016, dopo il controverso referendum che diede la maggioranza ai fautori della British-Exit.
La prima cosa da ricordare è che non è cambiato niente dal giorno del referendum al 31 gennaio 2020: è stato un periodo di negoziati e di discussioni politiche, specialmente drammatico nel Parlamento britannico, dove non si è trovato facilmente una maggioranza su cosa fare e come: perché il referendum ha solo stabilito un “sì” di principio, ma niente, ovviamente, su modi, tempi, condizioni.
Dopo le recenti elezioni, il nuovo Parlamento è cambiato, con molti più deputati fedeli al primo ministro Johnson, e quindi si è potuto proporre a Bruxelles, e a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, una proposta di percorso, su come fare per organizzare questa benedetta “uscita”. L’Europa ha approvato, ma attenzione, per ora c’è solo un accordo sul “come”, non sul “cosa”.
Quindi, anche dopo il 31 gennaio, diciamo che inizierà un lento movimento per organizzare il cambiamento, ma poco o niente accadrà prima del 31 dicembre 2020. In questi mesi, si dovrà entrare nel merito, e concordare questioni non banali.
Sulla vita delle persone: cosa faranno i cittadini britannici che vivono in Europa, saranno trattati come “extracomunitari”, con tanto di permesso di soggiorno e rischio di espulsione? E quali diritti perderanno, i cittadini europei che vivono nel Regno? Sul commercio: l’Europa unita è oggi magari debole in tanti aspetti istituzionali, non ha un fisco comune, non ha un esercito, e così via, ma sicuramente è un mercato libero e unito: cosa accadrà con il commercio tra le due parti della Manica? Quali dazi o tariffe potrebbe colpire un commercio che tornerebbe ad essere tra stranieri, e cosa succederà con il venir meno della condivisione di tanti regolamenti europei, con il rischio di rendere non commerciabili in Europa certi prodotti inglesi?
Per tutto questo, Londra e Bruxelles devono negoziare: potrebbero fare un accordo di libero scambio, che definisca libertà di commercio tra le due parti (ma anche condividere certe regole); potrebbero concordare determinati diritti per i rispettivi cittadini all’estero. Ma la lista è lunghissima: cosa facciamo con il mare e la pesca? Cosa con le società di servizi finanziari che da sempre hanno sede a Londra per il prestigio della City, ma che operano su tutta Europa? Cosa fare col confine irlandese, che è un confine difficile da chiudere, perché sul territorio britannico dell’Irlanda del Nord c’era una guerra civile, e quel confine aperto è stato molto importante per stipulare la pace tra cattolici e protestanti ?
Da qui al 31 dicembre 2020 sono previsti molti passaggi intermedi: a marzo l’Europa dovrebbe stabilire la sua “piattaforma “ (insomma le sue condizioni per stipulare accordi commerciali e trattati di collaborazione, che sono nell’interesse di tutti), l’eventuale accordo di libero scambio dovrà essere presentato al Parlamento Europeo entro il 26 novembre.
Se le cose non funzionano, è teoricamente previsto che lo stato provvisorio, di transizione, possa durare fino a tutto il 2022, ma Boris Johnson ha promesso di risolvere questa storia infinita della Brexit, che ha ormai frantumato i nervi di quasi tutti i britannici, assolutamente entro quest’anno, se no perde la faccia. Alle brutte, la Brexit si farebbe allora al 31 dicembre 2020 senza accordi particolari: le conseguenze non soni facili da prevedere, e vanno da un minimo di code e ingorghi alle frontiere a un massimo del ritorno della guerra civile nell’Irlanda del Nord, con tutto un ventaglio di guai piccoli, medi e grandi nel mezzo.
Il primo ministro britannico è sicuro di spuntare un buon compromesso con Bruxelles, ma è un fatto che ora, dei due, è il più debole: gli europei possono sostituire abbastanza bene la perdita di acquirenti britannici per i loro prodotti, se le frontiere tornassero vecchio stile, con dazi doganali e altri ostacoli al libero commercio, mentre Londra avrebbe molti più problemi a fare a meno dei ricavi del commercio con l’Europa.
Quello che già si è cominciato a vedere, è una tendenza di certe aziende a trasferire la loro sede verso un territorio europeo: si calcola che almeno 20 grandi firme di servizi finanziari prevedano di trasferirsi, con perdite di miliardi di sterline per l’economia londinese, con destinazione Francoforte, altra città che come Londra sa offrire un buon ambiente per la finanza e i suoi operatori, e per gli inglesi lavorare in Germania, dove tutti o quasi capiscono l’inglese, è facile; ci sarebbe poi Dublino, che praticamente sarebbe un trasloco fuori porta, nella verde Irlanda, ma anche Parigi e Milano, pur con qualche problema di lingua ed efficienza in più, potrebbero accogliere banche, assicurazioni, finanziarie e società di consulenza interessate a rimanere “dentro” l’Europa.
Molti investitori americani o giapponesi, poi, preferivano piazzare le loro filiali in Gran Bretagna per vendere in Europa: ancora, la lingua e la tradizionale affidabilità inglese in fatto di business facevano del Regno Unito una comoda porta d’ingresso per gli stranieri che volessero fare affari in Europa, ma con la Manica chiusa, questo vantaggio competitivo di aprire bottega proprio lì viene a sparire: Honda ha già fatto sapere che chiuderà la sua fabbrica da quelle parti, perché non conviene più produrre auto in Inghilterra se poi non le puoi più trasportare senza dogana in Francia o Belgio. I giapponesi sembrano particolarmente innervositi dalla confusione fiscale e amministrativa che potrebbe essere portata dalla Brexit: Sony e Panasonic, i famosi marchi giapponesi dell’elettronica, hanno a Londra la loro sede europea, ma stanno trasferendosi ad Amsterdam, in Olanda, un altro paese che sa come fare capitalismo, e, dal 2021, sarà comunque dentro il mercato unico.
A Londra si immagina che senza il mercato unico europeo, liberi delle sue regole strette sull’ecologia, la tutela dei consumatori, le garanzie sindacali, potrà di nuovo conquistare il mondo, come quando dava vento alle vele dei suoi galeoni. Ma nel mondo d’oggi l’India non è più una docile colonia, la Cina è un competitore formidabile, per non parlare degli Usa, che a parole sostengono la Brexit, ma dando l’impressione di un grosso lupo che vuole papparsi la pecorella inglese saltata fuori dal recinto europeo.
La principale preoccupazione di molte persone in Gran Bretagna è per il sistema sanitario nazionale, che, come in tutta Europa, è oggi principalmente pubblico e gratuito per i pazienti. Ma se la Brexit portasse a una crisi di introiti per le casse britanniche, potrebbero esserci forti spinte alla privatizzazione della sanità, e questo porterebbe all’arrembaggio delle grandi aziende sanitarie private americane, che sanno fare il loro mestiere, non hanno problemi di lingua o di cultura, e insomma nel futuro la Gran Bretagna potrebbe ritrovarsi con una sanità non solo “all’americana”, cioè privata e finanziata da assicuratori specializzati, ma anche letteralmente nelle mani degli americani.
Il mercato globale non è più quello di due secoli fa, e una nazione, sì ricca di tradizioni commerciali e di cultura, ma anche pur sempre soltanto di 67 milioni di abitanti, quando la Cina ne ha un miliardo e 386 milioni, l’India un miliardo e 370, gli Usa 328 miloni, il Brasile 210, potrebbe scoprire quanto è difficile ritornare a navigare gli oceani finanziari e commerciali da sola.
Luca Cefisi