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La provincia subordinata all’Italia dei campanili e alla crescente “campagna urbanizzata”

L’Italia è il Paese dei campanili. Tutta la sua storia, almeno dal Medioevo, soprattutto nel centro-nord (e la precisazione non è da poco) è segnata dalle città, e un certo tipo ben preciso di città: non tanto e non solo capitali politiche di uno Stato più o meno esteso, ma centro economico e amministrativo di una campagna circostante, mercato territoriale, e anche, più che altrove in Europa, capitale culturale e punto di riferimento di valori, tradizioni, lingua (dialetto) per tutti gli abitanti di quel territorio. Se è eclatante il caso emiliano, con la sua dislocazione regolare di città importanti lungo la via Emilia, anche nella gran parte delle regioni italiane questa dimensione urbana scandisce il territorio, mai metropoli ma sempre più di piccoli centri residenziali grazie la forza della loro identità: sono i capoluoghi, di solito riconosciuti dall’Italia unita proprio come riconoscimento di una storia precisa– e la questione del riconoscimento a capoluogo è stato per decenni croce e delizia della politica locale, agitando questioni secolari di identità e orgoglio di campanile.

La dimensione civica è ragione di una retorica del campanile spesso persino stucchevole: quei vezzi nazionali italiani, che difendiamo con orgoglio facendo di certi usi e tradizioni una bandiera, e suscitando l’ironia degli stranieri, che si chiedono se per caso sia punito con l’arresto bere un cappuccino dopo mezzogiorno, si moltiplicano a livello locale: che siano secchie rapite o arancine femmine contro arancini maschi,  sono baruffe che oggi chiamiamo appunto di campanile, per dire che non vanno oltre l’orizzonte che si vede dal campanile della cattedrale cittadina, ma per secoli quello è stato l’unico orizzonte che contava, per tanti, quasi tutti, noi italiani. La resistenza a uscire da quell’orizzonte è stata tale, tanto per fare un esempio, che ancora negli anni 90, quando lo sviluppo urbanistico e demografico aveva da tempo superato i confini fisici tra le città di Firenze, Prato e Pistoia, diventate oramai un’unica conurbazione, a Prato si istituiva trionfalmente la provincia autonoma, con tanto di dotte disquisizioni sui confini della nuova provincia che tiravano in ballo diplomi imperiali dell’anno Mille. Insomma, nella testa degli italiani certi confini sono ancora ben chiari: lo sono meno, però, nella realtà del territorio, e quindi per l’economia e la vita reale.

Gli italiani hanno, nell’ultimo mezzo secolo soprattutto, contraddetto nei fatti le loro più secolari tradizioni, alle quali pur continuano a tributare grande rispetto a parole: in primo luogo,  ribaltando la gerarchia tra città e campagna. Come denunciato con dolore, ma senza successo, da tanti urbanisti, è del tutto finita la tradizionale articolazione del territorio che partiva dalla torre civica e dalla piazza centrale, luogo di mercato per eccellenza, per poi organizzare a raggiera la rete delle strade dirette ai centri vicini e destinate al collegamento tra le parti ben distinte della città e della campagna: invece, è sorta la cosiddetta “campagna urbanizzata”, quella distesa ininterrotta di capannoni industriali e palazzine d’abitazione che riempie senza interruzione lo spazio tra le città storiche in quasi tutto il centro-nord.

Priva di piazze, impossibile da percorrere a piedi, e persino con i mezzi pubblici, rendendo indispensabile l’automobile, essendo diffusa e non concentrica, la campagna urbanizzata è la negazione della tradizione urbanistica italiana: eppure, è tanta parte dell’Italia di oggi. Come ha scritto il sociologo Ilvo Diamanti: “ Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po’ esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile”. Da qui, anche, la crisi delle relazioni di vicinato o di quartiere, la nuova solitudine dove la relazione con il mondo esterno avviene soprattutto tramite la televisione o l’internet: si dà spesso la colpa della povertà di relazioni sociali, a questi mezzi, ma essi sono forse più la conseguenza che la causa.

Un modello di sviluppo così ha avuto una sua necessità, nel bisogno forte del dopoguerra di spazio per la crescita industriale e demografica, ma ha avuto un costo: il consumo di suolo è stato enorme, con ricadute negative sulla produzione agricola, l’ambiente e persino la sicurezza, perché esplodono periodicamente i corsi d’acqua costretti nel cemento e il terreno asfaltato mal assorbe la pioggia. Risulta che l’Italia consuma ogni anno decine di migliaia di ettari di campagna, mentre abbiamo il record europeo di abitazioni non occupate, e di quelle abusive. Qui di nuovo entra in gioco il differenziale nord-sud. Al nord la presenza comunque elevata di infrastrutture e reti di collegamento può condurre all’evoluzione di nuovi modelli metropolitani, che organizzino in maniera adeguata l’espansione anarchica della campagna urbanizzata, offrendo, sia pure in ritardo, linee tranviarie veloci,  centri di aggregazione, copertura di rete. Al Sud, e in Sardegna, la situazione è diversa: minore, o assente, l’urbanizzazione della campagna, diverse le dinamiche demografiche; diversa la storia, con capoluoghi più distanziati e meno connessi tra loro; e poi diverso, più gracile, il reticolo delle piccole e medie imprese, la viabilità, e l’efficienza della rete telematica; esistono le città lineari lungo la costa, ma si tratta in maniera preponderante di seconde case poco redditizie, senza uno sviluppo aziendale turistico di tipo romagnolo.

Questa dualità si rispecchia nella ripresa dell’emigrazione dal Mezzogiorno: secondo un rapporto Svimez, il rapporto Nord/Sud per i residenti continua a peggiorare, soprattutto per quanto riguarda i laureati, con un flusso costante di laureati meridionali nelle città e nelle aziende settentrionali, ma anche per riduzione della natalità, in un circolo vizioso in cui il mancato sviluppo espelle giovani quadri e dirigenti e questo rallenta ancora lo sviluppo. In questa frammentazione del mercato nazionale, della domanda e offerta di lavoro, dei consumi devono muoversi le imprese, con risultati invero fortemente divaricati da regione a regione per la prevalenza dei fattori ambientali su quelli squisitamente imprenditoriali.

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