
Si chiamava Roberto Mancini. Dopo aver frequentato il liceo classico “Augusto” a Roma negli anni Settanta, dove si è messo in luce anche per il suo impegno politico, è entrato nella Polizia di Stato nel 1980, operando in Campania.
A partire dal 1994, insieme alla sua squadra, ha cominciato a mettere in luce il dramma della Terra dei fuochi, il vasto territorio tra Caserta e Napoli, un tempo fertilissima “Campania Felix”, compromesso dalle sostanze tossiche interrate dalla criminalità. Le delicate indagini – tra sopralluoghi, pedinamenti e sequestri – sono state spesso ostacolate e sono confluite in un’informativa di 239 pagine, del 12 dicembre 1996, consegnata alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, con nomi, luoghi e dettagli dei traffici di rifiuti in Terra dei fuochi. “Informativa ‘dimenticata’ nella Procura di Napoli per quattordici anni – scrive il giornalista Pino Ciociola.
Mancini morirà nel 2014, a soli 54 anni, per una malattia contratta a seguito del contatto ravvicinato con rifiuti tossici e radioattivi, come molti colleghi della sua squadra. L’anno seguente gli sarà assegnata la medaglia d’oro al valor civile dal Quirinale “per l’essersi prodigato, nell’ambito della lotta alle ecomafie, con straordinario senso del dovere ed eccezionale professionalità nell’attività investigativa per l’individuazione, nel territorio campano, di siti inquinati da rifiuti tossici illecitamente smaltiti. L’abnegazione e l’incessante impegno profuso, per molti anni, nello svolgimento delle indagini gli causavano una grave patologia che ne determinava prematuramente la morte. Mirabile esempio di spirito di servizio e di elette virtù civiche, spinti fino all’estremo sacrificio”.
Appartiene, in fondo, anche un po’ a lui e ai tanti che per anni hanno denunciato la condizione della Terra dei fuochi, il merito della sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver messo a rischio la vita di circa due milioni di residenti nella Terra dei Fuochi. La sentenza europea, a seguito del ricorso presentato da cinque associazioni e da 41 istanze collettive firmate da oltre 3.500 persone la maggior parte delle quali ha visto morire parenti di cancro, riaccende i riflettori su una drammatica vicenda che non costituisce purtroppo un capitolo chiuso, nonostante l’assordante silenzio degli organi d’informazione nelle ultime stagioni.
Secondo i giudici europei, non ci sarebbero prove sufficienti di una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi. Si legge nell’atto: “Data l’ampiezza, la complessità e la gravità della situazione, era necessaria una strategia di comunicazione completa e accessibile, per informare il pubblico in modo proattivo sui rischi potenziali o reali per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi. Questo non è stato fatto. Anzi, alcune informazioni sono state coperte per lunghi periodi dal segreto di Stato”.
Sul banco degli imputati quindi lo Stato italiano, che non avrebbe preso le misure necessarie per ridurre il pericolo, nonostante fosse consapevole del rischio.
La sentenza è frutto di lunghe indagini: la Corte europea dei diritti umani ha avviato il processo nel 2019, a seguito della documentazione acquisita anni prima dai ricorrenti, che hanno denunciato non soltanto la violazione degli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche dell’articolo 10, che sancisce il diritto ad essere correttamente informati. La Corte ha inoltre stabilito che l’Italia deve introdurre misure generali in grado di affrontare in modo adeguato il fenomeno dell’inquinamento, anche perché le bonifiche vanno a rilento. L’Italia ha ora due anni di tempo per attuare una strategia correttiva ed efficace.
Legambiente conferma come la sentenza della Corte europea dei diritti umani richiami alla responsabilità un’intera classe politica bipartisan, che per anni ha sottovalutato o nascosto quello che accadeva in quel territorio. “Si sono succeduti 12 governi nazionali e 5 a livello regionale senza trovare un ‘vaccino’ efficace – commentano Stefano Ciafani e Mariateresa Imparato rispettivamente presidente nazionale e regionale di Legambiente.
Anche don Maurizio Patriciello, il prete-simbolo del territorio, ha ricordato “le calunnie, le minacce, le derisioni subite”.
Per anni in questi territori flagellati si è negato o nascosto. Disconosciute le cause di morte, coperti i dati. C’è stato doloso negazionismo, come denunciano oggi molte autorità.
Il quotidiano Avvenire ha svelato che “negli ultimi venti anni in provincia di Napoli si sono avuti incrementi percentuali del tasso di mortalità per tumori del 47% fra gli uomini e del 40% tra le donne, incrementi che sono stati rispettivamente del 28,4% e del 32,7% anche in provincia di Caserta”, mentre in Italia, negli stessi anni, “i tassi sono viceversa rimasti tendenzialmente stabili, al Nord addirittura diminuiti”. Criminalità e industrie compiacenti hanno alimentato a lungo una bomba ambientale di immani dimensioni. Il generale Sergio Costa, al comando della Forestale della Campania, parla di “terre devastate”.
C’è la necessità, come imprenditori, di ribadire con forza i valori dell’etica e dell’attenzione all’ambiente. Bisogna porre attenzione, in particolare, sulla tracciabilità dei rifiuti speciali e industriali.