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Cos’è la “Convenzione di Faro” approvata alla Camera

E’ un documento poco conosciuto ai non addetti ai lavori, ma la “Convenzione di Faro” (“Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società”), che la Camera dei deputati ha approvato nelle scorse ore con 237 voti favorevoli, 119 contrari e 57 astenuti, è un importante ma controverso accordo che potrebbe avere rilevanti ricadute non solo per il settore dell’industria culturale (il sistema in Italia vale 96 miliardi di euro, ne muove 265 e occupa 1,55 milioni di addetti, dati Symbola riferiti al 2018), ampliando le modalità di tutela e valorizzazione, ma anche nelle modalità d’approccio al patrimonio culturale. Inoltre sostiene lo sviluppo delle tecnologie digitali per migliorare l’accesso al patrimonio culturale.

Nel dettaglio, si tratta di un’intesa stretta a Faro (in Portogallo) il 27 ottobre 2005 tra diversi Paesi e che l’Italia ha firmato a febbraio 2013. E’ stata ratificata da 20 Stati: Armenia, Austria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Finlandia, Georgia, Lettonia, Lussemburgo, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Moldova, Serbia, Slovacchia, Slovenia, ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia, Ucraina, Ungheria, Svizzera e Italia. Tuttavia mancano all’appello – e sono assenze che pesano – la Francia, la Germania, il Regno Unito, la Grecia e la Russia.

Le buone intenzioni non mancano. Le nazioni aderenti s’impegnano a riconoscere che “il diritto all’eredità culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, (articolo 1 della Convenzione), e che la “conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita” (articolo 2). Alla base di questi propositi c’è la meritoria convinzione che “chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento; chiunque, da solo o collettivamente, ha la responsabilità di rispettare parimenti la propria e l’altrui eredità culturale e, di conseguenza, l’eredità comune dell’Europa; l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà”, come sottolineato nell’articolo 4.

E qui comincia qualche problema, per cui anche il voto italiano ha prodotto una spaccatura soprattutto ideologica, con la netta opposizione del centrodestra.

Una delle questioni spinose è contenuta nell’articolo 7 intitolato “Patrimonio culturale e dialogo”. Il testo, imbevuto dell’immancabile “politicamente corretto”, recita: “Le parti firmatarie devono impegnarsi al rispetto per la diversità delle interpretazioni del patrimonio culturale di un determinato Paese” e a “stabilire i procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove valori contraddittori siano attribuiti allo stesso patrimonio culturale da comunità diverse”.

In sostanza si rinnova quello scontro tra la libertà culturale e il rispetto della sensibilità, soprattutto religiosa, degli individui. Emblematica una vicenda di poco tempo fa, quando il presidente della Repubblica dell’Iran, Hassan Rohani, venne in visita a Roma e qualche solerte funzionario si affrettò a censurare le nudità delle statue capitoline con appositi pannelli bianchi. Fece bene o male?

Vittorio Sgarbi ha commentato: “Cosa vuol dire? Dovremo censurare Pasolini, Céline? Come è possibile che si scriva una cosa così insensata e che ottenga anche il vostro plauso? La cultura è libera e profondamente provocatoria, la vita di Pasolini è una contraddizione costante al politicamente corretto. Dobbiamo velare, come fece Renzi, le statue romane al Campidoglio per accogliere il presidente dell’Iran? Questo è il limite a cui siamo subordinati? È chiaro che chi come noi ha una legge formidabile, che nessun’altro paese ha avuto, come la legge Bottai del 1939 sulla tutela del patrimonio, non ha bisogno di piegare il capo per assumere indicazioni da chi ha consentito globalizzazione, distruzione, sconvolgimento del patrimonio senza tutela. Noi abbiamo una sufficiente garanzia di tutela del patrimonio, che è nei principi fondamentali espressi dall’estetica italiana, da Cesare Brandi, da Roberto Longhi, da Bottai con la sua legge, e dobbiamo accettare queste lezioncine ridicole di buon senso fasullo che sono il simmetrico della persecuzione di Salman Rushdie, cioè l’idea che qualcuno deve contenere il suo linguaggio?”.

Nell’Aula di Montecitorio la Lega ha protestato contro la ratifica esponendo dei manifesti raffiguranti i Bronzi di Riace con lo slogan “Nulla da nascondere”.

Certo, non è facile individuare il confine tra la libertà artistica e l’offesa, l’oltraggio, l’oscenità. Ma ogni censura può essere peggiore del rimedio.

La celebre e splendida “Morte della Vergine” di Caravaggio, dipinta oltre quattro secoli fa (nel 1604), rientra proprio in questa materia delicata e attuale: la morale religiosa contro la bellezza del nudo. Infatti l’opera fu rifiutata dal committente perché giudicata oscena. Caravaggio ha rappresentato un’immagine della Madonna bellissima, per quanto inusuale proprio perché naturale. Il geniale artista, in sostanza, non ha rispettato l’iconografia classica. La Vergine è, infatti, raffigurata come una donna comune, addirittura sensuale con il braccio abbandonato, le caviglie scoperte, i piedi nudi, il ventre gonfio. Sembra che il pittore si sia ispirato al cadavere di una prostituta trovata nel Tevere.

Celebre un altro caso di censura dei corpi per ragioni di pudore. L’imponente “Giudizio universale” di Michelangelo, nella Cappella Sistina, con Daniele da Volterra, uno degli allievi prediletti del maestro, costretto a rivestire le donne e gli uomini con le famose “braghe” pur di salvare l’affresco (da allora è soprannominato “Braghettone”).

Questione simile riguarda un altro celebre dipinto nel Duomo di San Petronio a Bologna: la rappresentazione di “Maometto all’Inferno”, scuoiato da un diavolo. L’autore è Giovanni da Modena, ispiratore nientemeno che Dante con l’Inferno della Commedia. Più volte quel quadro è stato “demonizzato” perché offenderebbe la comunità musulmana. Ma, per conseguenza logica, andrebbe censurato anche Dante che dissacra la figura di Maometto collocandolo orrendamente mutilato, con il cugino Alì, nel XXVIII canto dell’Inferno, tra i seminatori di discordia della IX Bolgia?

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