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Dazi, evitare l’escalation

È una guerra commerciale globale, aperta ufficialmente dal presidente statunitense Donald Trump con l’obiettivo – molto discutibile – di “tornare a fare l’America ricca”. Nei piani del tycoon, l’attenuazione del deficit commerciale statunitense con l’estero, lavorando sui surplus commerciali finora di sessanta nazioni.

L’applicazione dei dazi Usa colpisce gran parte del pianeta (escluse Russia e Corea del Nord): dal 5 aprile dazi reciproci del 10% con tutti, dal 9 aprile aumenti differenziati per Paese.

Pesantissimi quelli asiatici, con il 49% per la Cambogia, il 46% per il Vietnam, il 36% per la Thailandia, il 34% per la Cina (potrebbe arrivare al 54%), il 32% per Taiwan, il 32% per l’Indonesia, il 26% per l’India, il 25% per la Corea del Sud, il 24% per il Giappone.

Per l’Unione europea previsto il 20%, mentre per la Svizzera il 31%. Per il Regno Unito il 10%. Già effettivo il tributo del 25% per le auto.

Certo, ci saranno margini di negoziazione e non mancherà qualche colpo di scena – speriamo positivo – come avvenuto per Canada e Messico, ma sicuramente l’aumento delle tariffe unito all’incertezza globale contribuiranno a determinare condizioni peggiori per milioni di persone. Il calo delle Borse, l’indebolimento del dollaro, il boom dell’oro costituiscono già prove evidenti di quanto il clima sia agitato per l’impatto che avrà una guerra commerciale sull’economia globale.

Se gli analisti di JPMorgan, in una nota agli investitori riportata da Cnn, parlano apertamente di “shock macroeconomico” e di un rischio recessione per l’economia mondiale nel 2025 (compresa quella statunitense), con pesanti impatti su prezzi e inflazione e Goldman Sachs spiega che la probabilità di recessione da qui ai prossimi 12 mesi salirà dal 20% al 35%, in Italia le prime previsioni parlano di un Pil positivo solo per lo 0,2% per quest’anno e si teme soprattutto per il volume delle esportazioni, attualmente a quota 67 miliardi di euro a fronte di 25 miliardi di importazioni dagli Usa, con un avanzo commerciale quindi di 42 miliardi.

Attualmente l’Unione europea registra un surplus commerciale con Washington pari a 155,8 miliardi di euro (dati Eurostat, riferiti al 2023). Germania (158 miliardi di export), Italia (67 miliardi, appunto) e Irlanda (51 miliardi) sono i principali propulsori.

L’impatto per le singole filiere potrebbe essere davvero pesante. A cominciare dall’agroalimentare: Washington è infatti la seconda destinazione delle esportazioni europee nel settore agricolo per 27,2 miliardi di euro nel 2023, mentre importiamo dagli Usa per 11,7 miliardi. A seguire il nostro export comunitario va nel Regno Unito (13,1% del totale) in Cina (8,8%), in Svizzera (7,4%) e in Turchia (4,4%). L’Italia sarà una delle nazioni più danneggiate.

Secondo l’Unione italiana vini, il mercato potrebbe tagliare i propri ricavi di 323 milioni di euro all’anno, con incidenze rilevanti per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop (35%), i piemontesi Dop (31%), il Brunello di Montalcino (31%), il Prosecco (27%) e il Lambrusco (27%).

Per il settore dell’olio d’oliva italiano, previsioni parlano di circa 240 milioni a rischio, mentre per la pasta si temono cali per 170 milioni e 120 milioni per i formaggi. Complessivamente alle aziende italiane, questi conflitti commerciali potrebbero costare tra i quattro e i sette miliardi di euro, con gravose ripercussioni per l’occupazione.

Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano, informa che I dazi sul prodotto passano dal 15% al 35% ed è convinto che l’aumento del prezzo non porti automaticamente ad una riduzione dei consumi, benché “imporre dazi su un prodotto come il nostro aumenta solo il prezzo per i consumatori americani senza proteggere realmente i produttori locali. È una scelta che danneggia tutti”.

Problemi anche per il lusso e per il comparto meccanico e farmaceutico, ma anche per le banche, l’energia e le assicurazioni.

In sostanza, si verifica un enorme dilemma per gli importatori, che con dazi del 20-25% vedrebbero cancellati i propri margini di profitto. Pertanto questi potrebbero provare a costringere il fornitore ad abbassare i prezzi per compensare il dazio o a trasferire i costi ai clienti, con prezzi più alti. In ogni caso l’azienda sarà costretta a procedere a tagli per ridimensionare le spese.

Oltre all’aspetto economico ed occupazionale, preoccupa anche il caos geopolitico. Se per ottant’anni, cioè dal dopoguerra, i rapporti tra Europa e Stati Uniti sono stati collaborativi e sereni, la situazione s’è indubbiamente guastata. Trump minaccia di non reagire altrimenti ci sarà un’escalation, mentre la Von der Leyen, riconoscendo di “essere nella tempesta”, ha già annunciato che l’Unione europea reagirà, pur restando pronta a negoziare. I francesi, ad esempio, preoccupati per gli effetti dei dazi in particolare su vini e liquori, per bocca di Sophie Primas, portavoce del governo, mirano ad attaccare i servizi online statunitensi.

Come Unsic riteniamo che non vadano date risposte d’istinto, di pancia, o unicamente vendicative contro gli Usa e gli americani, come ad esempio sta avvenendo con gli episodi di vandalismo contro le auto Tesla. Serve piuttosto – come sempre – la diplomazia. Sedersi intorno ad un tavolo e negoziare. Perché le guerre commerciali, lo dimostra la storia, sono deleterie per tutti e riportano indietro le lancette del tempo, quando le chiusure dei mercati limitavano la diffusione del benessere.

Restiamo fermamente convinti che un’impresa sana e un mercato aperto portino vantaggi per tutti.

I dazi, invece, avranno come immediata conseguenza l’aumento dei prezzi per i consumatori, rendendo tutti più poveri.

Siamo d’accordo con quanto detto dal presidente Mattarella che ha parlato di “errore profondo” riferendosi ai dazi e auspicato da parte europea “una risposta compatta, serena, determinata”. Lo speriamo tutti.

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