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I primi cento giorni di Trump

Trascorsi i primi cento giorni della presidenza di Donald Trump, è tempo di bilanci iniziali per il suo secondo mandato.

A caratterizzare questo primo periodo sono stati naturalmente i dazi, utilizzati come leva – in modo quasi sempre arrogante – per aprire trattative economiche, ciò che Trump ritiene di saper far meglio.

Emblematico quanto successo con la Cina. Dopo una serie di reciproci rialzi, che hanno portato i dazi al 145 e al 125 per cento, si è giunti ad un taglio reciproco del 115 per cento e soprattutto ad una sospensione di 90 giorni (con festeggiamenti nelle Borse), così come successo con l’Europa. Dal momento che questa politica statunitense del “colpo ad effetto” per poi fare retromarcia è ormai abituale, inaugurata con Canada e Messico, emerge un dato non proprio esaltante per Trump: tutte le sue politiche sono negoziabili. E non c’è elemento peggiore per i mercati che l’incertezza.

Certo, il tycoon ha questa capacità di aggiustare il tiro in corsa e di farlo in modo molto pragmatico. Pur non rinunciando all’utilizzo strumentale dei dazi, quando si moltiplicano esiti negativi alle sue politiche, ad esempio nei mercati finanziari o per i rischi di recessione o di inflazione, cambia strada. Ma l’insicurezza non promette nulla di buono. «Con il modello di governo forte e del favoritismo al potere, non sei più sicuro. Non sai se sarai tassato o penalizzato in modo speciale perché sei italiano o altro. Questa incertezza mina alla base una delle grandi forze degli Stati Uniti – ha dichiarato il noto economista Kenneth Saul Rogoff al Corriere della Sera.

Di certo, il bilancio dei primi cento giorni è assai controverso e l’indice di gradimento del presidente è in caduta libera tanto negli Usa quanto all’estero. Pesano la contrazione del Pil, il rallentamento degli investimenti privati, la debolezza del dollaro, le frizioni con la Federal Reserve, i rischi di recessione, ma anche il fallimento sulle trattative per la fine dei conflitti. Complessivamente c’è un calo di credibilità degli Stati Uniti.

Tra i pochi dati in controtendenza c’è l’espansione del mercato del lavoro, con un tasso di disoccupazione invariato al 4,2 per cento, e la solidità del tessuto produttivo, che resta tra i più orientati all’innovazione a livello mondiale.

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