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Per l’ex Ilva di Taranto ancora tanti problemi

Continua ad essere travagliata la storia dell’ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia, la società che gestisce lo stabilimento di produzione dell’acciaio a Taranto, il più grande d’Europa nel settore, oltre ad averne altri a Genova Cornigliano (Liguria), Novi Ligure e Racconigi (Piemonte) e Marghera (Veneto).

In crisi da anni e piena di debiti, molti in pancia alle banche, da tempo al centro di vertenze lavorative ma anche di polemiche per il suo impatto ambientale, ha visto nelle ultime ore la mancanza di accordo tra i soci per aumentare il capitale e ripianare i debiti.

L’eventuale chiusura avrebbe un enorme impatto sociale, dal momento che impiega circa 10mila dipendenti, più l’indotto. Nel dettaglio, attualmente nello stabilimento di Taranto lavorano 8.160 addetti, di cui 2.500 in cassa integrazione. A questi vanno aggiunti 1.600 dipendenti dell’ex Ilva in amministrazione straordinaria, collocati in cassa integrazione e circa 4.000 operai dell’indotto. Insomma, una bomba sociale.

La multinazionale franco indiana ArcelorMittal è socia di maggioranza, con il 68 per cento delle quote. È entrata nella vicenda con l’acquisto della società all’asta del 2018. E ora sembra non voglia più investirci. La restante parte dell’ex Ilva è dello Stato (Invitalia), disposto a metterci ulteriori fondi a patto di prenderne il controllo. Ma, come ricorda Il Post, nella storia della società si è già arrivati a ben dieci prestiti di soldi pubblici, l’ultimo di 680 milioni a fine 2022. E ora si aspettano altri 320 milioni.

La proposta pubblica riguarda il passaggio dal 38 al 60 per cento delle quote e diventare quindi socio di maggioranza. Ma in questo caso serviranno nuovi e solidi investitori: infatti, secondo rumors, per ripristinare la produzione (la crisi di liquidità ha portato al fermo della maggior parte degli impianti) e mantenere i posti di lavoro occorrerebbe oltre un miliardo di euro. La ricerca di nuovi soci da tempo è vana, nonostante la siderurgia resti un settore strategico. Evidentemente infilarsi in questo ginepraio è una prospettiva che non alletta alcun imprenditore. Sui giornali compaiono i nomi di Arvedi, l’acciaieria cremonese che ha rilevato la Ast di Terni, e Metinvest, la società ucraina che gestiva l’acciaieria di Mariupol. In ogni caso, ogni subentro richiederebbe tempi molto lunghi.

ArcelorMittal, secondo fonti d’agenzia, sarebbe favorevole al versamento da parte di Invitalia degli ulteriori 320 milioni di euro di capitale, con la propria conseguente diluizione al 34 per cento, ma porrebbe come condizione che il controllo sulla governance resti condiviso al 50 per cento tra Stato e privato.

È però concreta l’ipotesi, come riporta Il Sole 24 Ore, che si apra un contenzioso legale da almeno un centinaio di milioni di euro tra lo Stato italiano e ArcelorMittal per il non rispetto degli impegni contrattuali. Sarebbe pronto “ad assumere le decisioni conseguenti” il team legale di Invitalia per lo Stato italiano, mentre a favore della multinazionale, come ricorda il quotidiano confindustriale, c’è la promessa del socio pubblico di minoranza di versamenti rimasti lettera morta. In sostanza la multinazionale franco indiana vorrebbe ritornare in possesso del suo investimento finanziario.

Come ricorda Il Fatto quotidiano, “a dicembre gli acciaieri indiani si erano presentati in assemblea con una memoria di 12 pagine che aveva tutto il sapore di un preambolo delle possibili azioni legali che potrebbero scaturire. E anche lo stesso governo, nel comunicare il mancato accordo nel vertice di Palazzo Chigi, ha parlato di un interessamento del team legale di Invitalia. Insomma, che la rottura finisca davanti un tribunale, in una riedizione della ‘causa del secolo’ del 2019, appare un passo – se non scontato – quantomeno probabile. Più che uno snodo liberatorio, il divorzio è l’ennesimo nodo gordiano di una vertenza senza fine”.

La prospettiva più nera è che l’ex Ilva sia messa sotto amministrazione straordinaria per poter restare operativa, concordando con il tribunale un piano di risanamento che tuteli i creditori (per circa 170 milioni di euro), a cominciare dagli autotrasportatori che, come scrive Repubblica, sono tornati a presidiare la portineria C dello stabilimento siderurgico, temendo il peggio. Nei confronti del solo settore dell’autotrasporto, evidenziano i sindacati, Acciaierie d’Italia avrebbe accumulato debiti per circa 20 milioni. Nella prospettiva meno auspicata da tutti, si ritroverebbero in amministrazione straordinaria sia la società oggi proprietaria degli impianti Ilva sia chi li gestisce. Un bel pasticcio.

Le soluzioni auspicate a Taranto e rilanciate in queste ore da lavoratori e sindacati riguardano il controllo pubblico della società con la ripresa industriale, la salvaguardia dell’occupazione, compresa quella dell’indotto, le garanzie per la salute e la sicurezza dei lavoratori, oltre al risanamento ambientale. Ma sono temi ribaditi da decenni e le cronache degli ultimi giorni vanno purtroppo in altre direzioni. I carabinieri del Nucleo operativo ed ecologico di Lecce, ad esempio, si sono recati nello stabilimento siderurgico di Taranto proprio nelle ultime ore per dare seguito ad un ordine di acquisizione di documenti relativi alle emissioni, in particolare in zona cokeria e rispetto al benzene. L’iniziativa rientrerebbe, a quanto si apprende, nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza il reato di inquinamento ambientale.

Il prossimo appuntamento è il tavolo tra esecutivo e sindacati, convocati a Roma l’11 gennaio alle 19.

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