
La prova delle regionali in Campania, Puglia e Veneto non ha offerto sorprese, confermando i sondaggi della vigilia nel segno della “non contendibilità” nei confronti elettorali Fico-Cirielli, Decaro-Lobuono e Stefani-Manildo e della sostanziale “mancanza di partita”. Fico, Decaro e Stefani hanno di fatto doppiato – o più che doppiato – gli antagonisti. Del resto si tratta di regioni dove tre governatori carismatici e radicati nei territori (De Luca, Emiliano e Zaia) hanno coltivato per anni e accresciuto fortemente i consensi “organizzati” verso la propria compagine politica.
Così le prime due regioni – Campania e Puglia – molti anni fa governate dal centrodestra (i governatori Stefano Caldoro in Campania tra il 2010 e il 2015 e Raffaele Fitto tra il 2000 e il 2005), sono diventate roccaforti del centrosinistra. Il Veneto, invece, si conferma baluardo del centrodestra da trent’anni, i 15 anni di Giancarlo Galan e i 15 di Luca Zaia.
Il primo elemento di analisi che arriva dalle urne di domenica e lunedì – e non è una novità – è quello relativo all’affluenza, che segna ormai ad ogni tornata elettorale record negativi. In queste regionali è calata mediamente di ben 14 punti, crollando dal 57% al 43% circa (più in Puglia, sopra il 14% e in Veneto, sopra il 16%, che in Campania, intorno all’11%). Ancora una volta occorre parlare di sfiducia e di disaffezione verso la politica, a cui aggiungiamo sicuramente scarse motivazioni per un voto dagli esiti abbastanza prevedibili in tutte e tre le regioni. Certo, più cala la partecipazione e più un eletto appare quasi delegittimato dalla sua comunità, ricevendo ormai il consenso di un cittadino su cinque.
Un secondo elemento, in fondo collegato con la scarsa affluenza, riguarda l’assestamento dei blocchi elettorali. Cioè s’è molto assottigliato, anche per la mancanza di novità clamorose, quel voto flessibile che un tempo si chiamava “d’opinione”. Le principali formazioni politiche possono contare sulla propria radicata organizzazione nei territori, che costituisce ormai lo “zoccolo duro” prevalente del voto e che segue, in genere, le indicazioni di partito: ciò spiega, ad esempio, come il “matrimonio d’interesse” tra De Luca e Fico sia stato ben digerito dall’elettorato di Pd e M5S che ha premiato l’ex presidente della Camera.
L’astensionismo crescente è causato – oltre che da un dato demografico che spesso si trascura – anche dalla mancanza di un’offerta politica di rottura, come è stato, ad esempio, per il recente successo di Zohran Mamdani a New York, sancito da due milioni di elettori (affluenza record degli ultimi cinquant’anni), quasi il doppio della prova del 2021. Ma anche il fenomeno dei Cinque Stelle in particolare alle elezioni politiche del 2018, quando i “grillini” hanno raggiunto quasi il 33% dei consensi con un’affluenza al voto del 73%, perlomeno quasi stabile rispetto a cinque anni prima (75%) e certamente molto superiore a cinque anni dopo (64% nel 2022). Siamo molto lontani da quel 1976 quando, in un epico scontro tra comunisti e anticomunisti, andò a votare ben il 93,4% degli italiani.
Se proprio vogliamo trovare qualche elemento d’interesse, occorrerà attendere il numero definitivo dei voti dei singoli partiti, per valutare sia crescite sia regressioni, nonché i rapporti di forza all’interno delle coalizioni. In prospettiva delle politiche, il centrodestra dovrà recuperare consensi soprattutto nelle due regioni strategiche del Mezzogiorno, dove indubbiamente la forbice del confronto con il centrosinistra si è molto allargata. E se vogliamo individuare una sorpresa, è quella di Riccardo Szumski, il medico vicino ai no vax che in Veneto dovrebbe aver superato la soglia del 5%, entrando nel consiglio regionale.
UNSIC – Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori

