
L’acuirsi del bellicismo in Medio Oriente, con l’intervento diretto a fianco di Israele, contro l’Iran, da parte degli Stati Uniti (che confermano il ruolo di “gendarme del mondo” con i bombardieri B-2 che hanno colpito i tre impianti nucleari iraniani a Fordow, Isfahan e Natanz), alimenta scenari davvero imprevedibili.
Di fatto è in atto l’ulteriore e forse decisiva fase del progetto del premier israeliano Benyamin Netanyahu, che da tempo mira ad annientare in modo “precauzionale” ogni rischio per la stessa sopravvivenza di Israele.
Per fare ciò, particolarmente in linea con il sodale statunitense, conferma il colpo di spugna su quei radicati vincoli imposti dal diritto internazionale: dallo strumento diplomatico ai trattati multilaterali, dal ruolo delle Nazioni Unite ai tribunali internazionali fino all’uso spregiudicato e normalizzatore della guerra preventiva “anti-atomica” (non dissimile da quella che adottò Bush per l’intervento armato in Iraq nel 2003 per distruggere “armi batteriologiche e chimiche”, che in realtà il regime iracheno non ha mai detenuto).
Il mondo è sempre più in mano a poche superpotenze, che vivono i quadri giuridici internazionali come meri suggerimenti. La stessa Russia, con l’invasione dell’Ucraina, ha fatto carta straccia dei principi dell’integrità territoriale e della sovranità. E la mancanza di stabilità è il contesto peggiore anche per chi fa impresa.
L’interrogativo centrale è se l’attuale “guerra mondiale a pezzi”, richiamando l’efficace locuzione di Papa Francesco, possa trasformarsi in qualcosa di meno frammentato e di ancora più tragico.
Nel tentare di intravedere gli scenari futuri, l’aspetto più preoccupante è la loro cornice: oggi gli equilibri mondiali non dipendono più, appunto, dalle norme giuridiche, bensì dai bilanciamenti della forza militare tra potenze concorrenti. La corsa al riarmo, inclusa quella europea, va proprio in questa direzione. E l’economia, incentrata sulla “sicurezza” preventiva, si trasforma sempre più in “economia di guerra”.
La migliore delle ipotesi è che si possa ricreare, benché in un contesto decisamente differente, quella contrapposizione netta – e livellatrice – che ha caratterizzato il mezzo secolo di (abbastanza) “pacifica” guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Affiancato all’augurio che Israele, dopo aver annientato le principali minacce alla sua sopravvivenza (compresi la fine del regime di Bashar Assad in Siria e il ridimensionamento degli Hezbollah – anche grazie all’uccisione del suo leader carismatico Hassan Nasrallah – e degli Houthi), dopo la “pratica Iran” – con Teheran tutto sommato isolata nel mondo arabo – possa tornare ad una sostanziale quiete. Anche in linea con quanto professa Netanyahu, “la pace attraverso la forza”.
Resta, però, un quadro geopolitico basato su infinite variabili e sull’imponderabilità, figlio anche di un assetto politico indebolito, ad ogni latitudine, da epocali transizioni – tecnologiche, demografiche, climatiche.
Se Trump, a capo della principale potenza mondiale, è imprevedibile nelle sue azioni, come ha dimostrato anche in Iran, per paradosso la Cina ha finora palesato una straordinaria crescita economica in un contesto di pacifismo, di cooperazione – talvolta sfociante, ad onor del vero, in un neocolonialismo – e di multilateralismo. Mentre India e Pakistan, entrambi detentori di atomica, costituiscono l’ennesimo motivo di preoccupazione su scala mondiale.
In questa complessa trama, l’Europa – segnata da divisioni interne e legata a tentativi diplomatici che risultano sempre più anacronistici – conferma purtroppo la sua irrilevanza nell’influenza geopolitica.
UNSIC – Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori
