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Immigrazione, fenomeno globale

Domenico MamoneL’immigrazione continua a rappresentare uno dei principali argomenti di confronto (e di scontro) tra cittadini comuni. E, di conseguenza, tra esponenti della politica in cerca di facili consensi nella dicotomia – abbastanza convenzionale – delle frontiere spalancate (i “buonisti”) o serrate (i “cinici”). L’inflazionata saga degli slogan contrapposti tra “alziamo muri”, “aiutiamoli a casa loro” o “facciamo di tutto per integrarli” finisce per banalizzare una realtà che è sicuramente ben più complessa.

Per averne prova è sufficiente leggersi l’ottimo rapporto Migration and its impact on cities” (“Le migrazioni e il loro impatto sulle città”) promosso dal World Economic Forum e pubblicato in 172 pagine lo scorso 25 ottobre. Il pregio principale del lavoro, secondo noi, è quello di inquadrare il tema su un piano mondiale, una prospettiva che aiuta decisamente a decifrare il fenomeno in modo diverso.

La lettura universalista smonta subito un’etichetta affibbiata frettolosamente ad un processo ormai mondiale: quella che si tratti di un’emergenza (come tale, temporanea) e che interessi principalmente l’Italia e l’Europa. Tutt’altro.

Se per numero più alto di migranti internazionali le prime dieci destinazioni, nel 2015, erano nell’ordine gli Stati Uniti, la Germania, la Russia, l’Arabia Saudita, il Regno Unito, gli Emirati Arabi, il Canada, la Francia, l’Australia e la Spagna (l’Italia undicesima, davanti ad India, Ucraina e Thailandia), quindi un panorama estremamente variegato e ben distribuito tra i cinque continenti, per percentuale di stranieri sul totale della popolazione primeggiano invece Emirati Arabi, Kuwait, Singapore, Giordania, Cina, Arabia Saudita, Svizzera, Australia, Kazakhistan e Canada, anche qui con una più o meno equa distribuzione in tutto il mondo. Insomma, il fenomeno è quanto mai mondiale.

Ed in effetti le migrazioni costituiscono un evento presente in ogni fase e in ogni luogo del cammino umano. Ed il loro attuale intensificarsi va di pari passo con la globalizzazione di ogni fenomeno, dagli scambi commerciali sempre più rapidi ad una comunicazione ormai interattiva. I processi migratori, quindi, costituiscono una tendenza inesorabile che produce – volenti o nolenti – trasformazioni epocali che una politica all’altezza della situazione dovrebbe essere in grado di gestire. Una questione davvero universale: il report del Wef, molto dettagliato nei numeri, ci fa sapere che un settimo della popolazione mondiale è “migrante” (ma con tre persone su quattro che si spostano all’interno della stessa nazione) e che ben 66 milioni di persone intendono migrare nei prossimi dodici mesi. Viene in mente Massimo Troisi in “Ricomincio da tre” bollato come “emigrante” perché napoletano a Firenze.

Le migrazioni più rilevanti, ancora oggi, sono quindi quelle interne, dalle campagne verso le metropoli, un po’ come avveniva con i nostri meridionali all’assalto delle città del Nord Italia negli anni Cinquanta e Sessanta. Leggendo il rapporto si scopre che in Cina la corsa alle città è epocale, in Africa la crescita urbana è undici volte superiore a quella delle città europee, in India la migrazione interna è raddoppiata tra il 2001 e il 2011. E ancora: a Dubai l’83 per cento della popolazione viene da fuori, a Bruxelles è forestiero il 62 per cento degli abitanti, quote rilevanti anche a Londra, New York e Sydney. E l’Italia? E’ meno multietnica di ciò che si ritiene, mancando grandi metropoli: Milano, che primeggia per popolazione che viene da fuori, non supera il 20 per cento di cittadini stranieri.

Chi ritiene che il vecchio continente europeo sia soltanto terra di approdo, sbaglia: secondo la ricerca, un abitante su cinque dell’Unione europea vorrebbe migrare, sette punti in più rispetto alla media globale. E qui si comprende come l’immigrazione, da un punto di vista demografico, costituisca sicuramente una risorsa. Ma il report sottoscrive un’altra verità: chi teme i migranti è soprattutto chi ne ha pochi. E’ il caso, ad esempio, di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, nazioni che hanno manifestato il proprio dissenso alla ridistribuzione dei rifugiati.

Certo, i cittadini stranieri non sono tutti uguali. Così come le politiche di integrazione. E in un Paese in grave crisi economica e politica come il nostro, un problema in più (irrisolto) può sicuramente alimentare gravi squilibri.

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