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La vittoria di Orbàn in Ungheria

Domenico MamoneLa schiacciante vittoria del leader Viktor Orbán alle elezioni legislative di Ungheria provoca contrapposte reazioni e accende molteplici interrogativi. E non può essere altrimenti trattandosi del Paese dell’inventore del cubo rompicapo, Ernő Rubik, e del mago Houdini.

L’unico dato di fatto è la schiacciante affermazione di destre sempre più intransigenti, che conquistano complessivamente tre elettori su quattro. Oltrepassando qualsiasi previsione della vigilia. Tra l’altro con una percentuale record di votanti al 69 per cento, l’8 per cento in più del 2014.

Fidesz, il partito di Orbàn, è il vincitore assoluto: ha incassato la metà dei consensi complessivi degli elettori. Andrà ad occupare i due terzi nell’Assemblea nazionale, con 134 seggi su 199. Il politico magiaro ha quindi conquistato il suo terzo mandato consecutivo, che lo consacra come il capo di governo più longevo dell’Unione europea dopo Angela Merkel.

Sarebbe logico, ragionando su canoni tradizionali, che il principale partito antagonista sia di sinistra. Invece la seconda formazione del Paese è addirittura più a destra, velata di tinte antisemite, per quanto “moderatasi” prima delle elezioni. Si chiama Jobbik, nome che significa “destra” e “il migliore”, ed ha superato il 20 per cento dei consensi, per quanto mirava a diventare il primo partito.

La sinistra è ormai residuale: i socialisti di Mszp alleati con i verdi di Dialogo si sono fermati al 12 per cento (fino a pochi anni fa i socialisti erano il primo partito e governavano), mentre i verdi liberali di Lmp hanno ottenuto il 7 per cento.

Insomma, se molti Paesi sono caratterizzati dall’anomalo – almeno fino a qualche anno fa – scontro tra un grande centrodestra liberista e una crescente destra nazionalista, con la sinistra in affanno in quasi tutto il vecchio continente, la competizione ungherese spicca per essersi addirittura radicalizzata nella sola destra più estrema.

Il risultato delle elezioni magiare non può essere, però, liquidato come un’anomala “vicenda locale”. Sia perché il Paese, con dieci milioni di residenti, un’identità fortemente inserita nella storia europea e un buon tessuto industriale (che assorbe il 32 per cento dei lavoratori magiari) rappresenta un importante lembo del nostro continente; sia perché l’Ungheria è parte rilevante dei Paesi di Visegrad – Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia (64 milioni di abitanti complessivi) – dove le resistenze al progetto comunitario sono più forti, temendo principalmente di veder annullate quelle identità e quei valori già offuscati nei decenni di regime comunista.

Per rispondere alla domanda sul perché il leader magiaro rinnovi, elezione dopo elezione, plebisciti popolari a suo favore occorre partire proprio da qui.

Orbàn rappresenta ormai un modello controverso che, come tale, spacca l’opinione pubblica in tutta Europa: se c’è chi lo bolla come un populista xenofobo e razzista, pericoloso anti-islamista e incurante del solidarismo comunitario, c’è anche chi, viceversa, lo esalta quale abile statista coraggioso nel difendere la sovranità del proprio Stato dalle ingerenze europeiste, nel tutelare gli interessi dei propri cittadini lottando contro i poteri creditizi e finanziari internazionali (vedi il connazionale Soros) o nel denunciare i rischi dell’islamizzazione.

Se su un piano morale, tante iniziative di Orbàn mostrano il fianco alle critiche – l’ultima è la tassa alle Ong che “trafficano” in migranti, sempre più demonizzate dalle destre europee – il leader magiaro ha dalla sua il boom economico dell’Ungheria degli ultimi anni capace di cancellare il periodo nero dei socialisti al potere con l’Ungheria sull’orlo del default, costretta a ricorrere ai finanziamenti di Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Unione europea (25,1 miliardi di dollari) in cambio dei soliti impegni concreti in tema di misure di austerità. Probabilmente proprio in quelle politiche – ormai lontane – si può intravedere l’humus per l’irrefrenabile avanzata della destra più estrema.

In effetti l’economia ha ripreso a correre proprio durante il regno del Fidesz: ad esempio. dal 2010 ad oggi il reddito pro capite ungherese è passato da 13mila a 14.700 dollari. E se nel 2016 il Pil è cresciuto del 2,1 per cento, nel 2017 ha raddoppiato portandosi al 4,2 per cento. E nel 2018, secondo le previsioni di Vanda Szendrei, economista di Oxford Economics, l’espansione potrebbe aggiungere un altro invidiabile 4,1 per cento (il ministero dell’Economia si spinge fino al 4,3).

Il boom del turismo (più 9 per cento quello domestico, più 6,1 quello estero) e l’aumento dei salari stanno determinando la crescita dei consumi.

Insomma, i continui e discutibili attacchi alle istituzioni di Bruxelles, ai migranti islamici e al miliardario George Soros, che molti analisti collegano alla collaudata strategia di individuare nemici e alimentare la paura, trovano una sorta di “legittimazione” nei promettenti numeri economici che – insieme agli aiuti alle famiglie – rafforzano il consenso alle destre.

Qualcuno la chiama addirittura “Orbanomics”, un’originale strategia economica “poco cuore e grandi tasche” in grado di conciliare nazionalismo e mercato: ferree chiusure alle politiche umanitarie, ma grandi aperture agli investimenti stranieri (tedeschi, austriachi, americani, ma anche italiani in testa), il cui stock complessivo ha oltrepassato gli 80 miliardi di euro.

Sono prestigiose, in tal senso, le presenze nel settore automotive, che comprendono General Motors, Magyar Suzuki, Mercedes-Benz e Audi.

Un successo figlio, in particolare, della tassazione portata al 9 per cento del reddito delle imprese (la più bassa in Europa), di un concorrenziale costo del lavoro, dell’ottima qualità della manodopera, di un’ubicazione geografica ormai strategica grazie anche alle prospettive di sviluppo dei mercati dell’area. A ciò si sommano il controllo statale in settori-chiave come l’energia, le utilities, le costruzioni e le banche e soprattutto l’ottima gestione dei fondi comunitari di coesione, che rappresentano – però – uno dei più grandi paradossi nell’intera Europa .

Infatti, mentre il governo nazionalista denuncia le ingerenze di Bruxelles, continua in realtà a drenare ingenti risorse comunitarie: nel periodo 2014-2020 l’Ungheria beneficia di ben 35 miliardi di fondi strutturali da investire nello sviluppo dell’economia e dell’agricoltura. Nel contempo, mentre ogni tanto professa politiche anti-sovietiche, fa affari con il Paese di Putin (l’Ungheria dipende dalla Russia per il 60 per cento delle sue importazioni di gas e per l’80 per cento delle sue importazioni di petrolio).

Il “modello ungherese” è insomma un ibrido che fonde sovranismo e liberismo, che concilia nazionalismo e globalizzazione soprattutto sul piano economico: lo sciovinismo non esclude le aperture internazionali finalizzate a scambi commerciali. Ne beneficiano anche le esportazioni, che nel 2017 sono cresciute dell’8,5 per cento e hanno superato i 100 miliardi di euro, il 90 per cento del Pil. Nel contempo lo Stato ha rilanciato l’edilizia (più 15,6 per cento in un anno) attraverso il programma di sostegno per la casa “Csok”, finanziato con fondi governativi.

Il quadro economico incoraggiante è confermato dal tasso di disoccupazione sceso sotto al 4 per cento (dal 12 di qualche anno fa), mentre quello di occupazione è cresciuto dell’1,6 per cento nell’ultimo anno.

Fitch e S&P hanno rivisto l’outlook del Paese elevandolo a positivo (“BBB-“) mentre il rating di Moody’s è “Baa3” con outlook stabile.

Ovviamente i sovranisti legano il “miracolo” alla possibilità di attuare politiche con una moneta propria (niente euro, insomma). Ma se è vero che il debito sta scendendo oggi è pari al 74 per cento del Pil – senza bisogno delle ricette di austerity professate dalla troika, che natalità e scolarizzazione crescono, resta una preoccupante asimmetria tra l’indubbia crescita economica generale e la distribuzione del reddito. Non è un caso se il Paese, dopo Romania e Bulgaria, sia ai vertici europei per numero di poveri (26 per cento della popolazione) e di soggetti a rischio di esclusione sociale. E ogni anno un numero rilevante soprattutto di giovani sceglie di cercare fortuna altrove.

(Domenico Mamone)

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