Lo ha dimostrato ancora una volta e con una chiarezza il nuovo rapporto Ocse ‘Strategia per le competenze”.

Da una parte, il 21 per cento dei lavoratori italiani è sotto-qualificato, mentre il 6 per cento possiede delle competenze basse se confrontate alle mansioni lavorative effettivamente svolte; dall’altra parte stupisce invece il fatto di trovare il 18 per cento dei lavoratori sovra-qualificato e un 11,7 per cento di lavoratori con competenze in eccesso.

A gettare delle ombre ancora più lunghe sul mancato allineamento tra domanda e offerta, poi, c’è il fatto che più di un lavoratore su tre (il 35 per cento) ha una mansione che non è correlata con i propri studi.

Insomma, se si volesse trovare un esempio pratico per spiegare in modo concreto cos’è lo skill mismatch non si dovrebbe andare lontani: l’Italia stessa ne è una dimostrazione fedele.

Ma in cosa consiste questo fenomeno?

“Lo skill mismatch è un’asimmetria delle competenze, una discrepanza dannosa tra le skill possedute dai lavoratori o aspiranti tali e le competenze effettivamente richieste dalle aziende – spiega Carola Adami, fondatrice e Ceo di Adami & Associati, società di recruiting di Milano attiva in tutte le principali città italiane. La Adami sottolinea che “questo disallineamento può assumere diverse forme: come evidenziato dall’ultimo rapporto Ocse, può essere per esempio sia negativo sia positivo, laddove le competenze del lavoratore risultano essere superiori rispetto a quelle effettivamente richieste dalla mansione svolta”.

Lo skill mismatch è andato via via pesando sempre di più negli ultimi anni: «la crescente esigenza da parte delle aziende italiane ed internazionali di lavoratori con eccellenti competenze digitali non fa altro che sottolineare la mancanza di lavoratori sufficientemente preparati in questo campo – continua la Adami.

E questo non è un problema che potrà essere risolto molto in fretta. È infatti stato stimato che nel nostro Paese, nel 2020, si potranno contare 750 mila posti di lavoro non occupati, tutti processi di ricerca e selezione del personale che non avranno buon fine proprio per l’oggettiva mancanza di lavoratori sufficientemente preparati.

Di certo non si tratta di un problema facile da eliminare.

“Nel pieno della rivoluzione digitale, è del tutto naturale che anche buona parte delle aziende non possa sapere con certezza quali saranno le professionalità necessarie per il futuro – precisa Carola Adami, aggiungendo però che “grazie alle riforme portate avanti negli ultimi anni e grazie anche ad un processo di riorganizzazione interno che le più grandi realtà lavorative stanno affrontando, il disallineamento tra domanda e offerta è destinato ad affievolirsi”.

Lo stesso rapporto Ocse, del resto, ha sottolineato i potenziali progressi rappresentati da riforme come il Jobs Act, La Buona Scuola, il Piano Nazionale Scuola Digitale e il Piano Nazionale per l’Industria 4.0. Nella medesima sede, però, pur evidenziando che queste novità “vanno nella giusta direzione”, si ribadisce “la necessità di proseguire nell’attuazione di queste riforme”.

Di fronte a questo panorama, cosa devono fare i giovani italiani per evitare di cadere vittime dello skill mismatch e garantirsi così un lavoro una volta terminati gli studi?

“Di certo ognuno deve seguire le proprie inclinazioni, ma di certo può aiutare sapere quali sono le principali direttive del mercato del lavoro attuale e futuro: le aziende richiedono sempre più dei lavoratori digital oriented, capaci di adattarsi continuamente e in grado di predire le esigenze aziendali – spiega l’esperta.

“Se invece dovessi dire quali sono le professioni più richieste in questo periodo, penserei immediatamente agli ingegneri informatici, ai data scientist e agli addetti al digital marketing, ma anche a figure più lontane dall’ambito digital, come i commerciali e le figure operative per la logistica – conclude la Adami.

(Gi.Ca.)