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Covid-19, intervista a Michele Usuelli (+Europa): “Ritardi e pochi tamponi hanno pesato sui contagi”

Milanese, “lombardo, europeo”, così si definisce Michele Usuelli, consigliere della Regione Lombardia eletto con +Europa-Radicali. Ma non è solo questo. E’ padre di due bambini, medico di terapia intensiva neonatale alla “Mangiagalli” di Milano e fino allo scorso settembre è stato segretario nazionale del Gruppo di studio della Società italiana di neonatologia per “cure del neonato nei paesi a limitate risorse”.

Soprattutto, da sempre coniuga l’impegno politico con quello sociale. Ha operato per sette anni come medico ospedaliero sul campo con numerose Ong attive in Afghanistan, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, Darfur, Sudan Khartoum, Malawi, Cambogia e come volontario presso case di riposo per anziani e centri per ragazzi disabili.

E’ stato promotore della legge che prevede l’istituzione di un registro regionale dei Piani di abbattimento delle barriere architettoniche. Ed è stato uno dei candidati alla presidenza della Commissione d’inchiesta sull’emergenza Covid-19 in Lombardia, candidatura sostenuta da 490 operatori del mondo della sanità e della ricerca lombardi.

Lo raggiungiamo telefonicamente per avere un punto di vista scientifico ed umano da chi la pandemia l’ha vissuta in prima linea, come politico, medico e cittadino lombardo.

– Dottor Usuelli, il tema della mobilità sostenibile è a lei caro, visto che in città predilige spostarsi in bicicletta. Le chiediamo, quindi, la sua opinione sulla possibile incidenza che l’inquinamento, compreso quello da allevamenti intensivi che primeggiano in Lombardia, può aver avuto sulla diffusione del Covid-19 sulla regione italiana maggiormente interessata dall’epidemia, al di là del dinamismo e della grande mobilità internazionale che contraddistingue Milano e la Lombardia.

“Anche se si parla molto di questa possibile correlazione, purtroppo ad oggi non ci sono studi scientifici pubblicati su riviste specializzate che dimostrino e quantifichino il contributo dell’inquinamento nella diffusione dell’epidemia di Covid-19 in Lombardia. Quello che posso dire è che nella mia regione si è verificata la comparsa e la moltiplicazione del coronavirus in modo così rilevante perché eravamo preparati ideologicamente ad intercettare un virus che venisse da fuori (il nemico esterno), mentre invece non abbiamo considerato minimamente che il virus fosse già da dentro. Il genoma del virus analizzato dall’ospedale Sacco di Milano ci dice che è molto simile al ceppo tedesco, quindi non è arrivato dalla Cina, era già in Lombardia ben prima di Codogno. Da quanto è emerso nell’analisi retrospettiva pubblicata su riviste scientifiche, si è scoperta l’esistenza di alcuni casi di Covid-19 già nella prima decade di gennaio. Circa quaranta giorni prima di Codogno. Il nostro sistema sanitario regionale, nel corso degli ultimi 27 anni da Formigoni a Fontana (senza scordare il “contributo” di Maroni), si è sviluppato verso la cura delle malattie più remunerate dal Sistema sanitario nazionale, a discapito della medicina di territorio, della prevenzione, dell’igiene e della sanità pubblica, aspetti invece ben consolidati in altre regioni, come il Veneto, l’Emilia Romagna e la Toscana. Quando, nei primi dieci giorni di gennaio, i medici di territorio lombardi si sono imbattuti in pazienti affetti da ‘polmoniti strane’, in un momento in cui nel mondo vi era già in corso un’epidemia di ‘polmoniti strane’, in Lombardia la catena di comunicazione sanitaria che dalla periferia deve arrivare al centro, la cosiddetta sorveglianza epidemiologica, è risultata gravemente compromessa. Si è verificato così un ritardo nella diagnosi dei primi casi, sviluppando catene di contagio multiple. L’elevato numero dei contagiati in gravi condizioni, ha portato poi ad una saturazione dei reparti di terapia intensiva, con un’inevitabile riduzione degli standard di qualità della cura, dipendente dal numero esiguo di medici ed infermieri rispetto al maggiorato numero pazienti bisognosi di continua sorveglianza ed assistenza medica. L’alto tasso di letalità registrato in Lombardia rispetto al resto d’Italia, oltre all’elevata età anagrafica dei pazienti deceduti, è imputabile anche al ridotto numero dei tamponi effettuati. Il tasso di letalità è dato infatti dal rapporto tra il numero dei deceduti ed il numero positivi. Il mancato computo dei molti positivi asintomatici non sottoposti a tampone, ha fatto emergere un dato statisticamente poco attendibile”.

– Secondo lei che ruolo avrà la bella stagione nella possibile attenuazione del fenomeno?

“Anche su quest’aspetto non abbiamo ancora pubblicazioni scientifiche a riprova della diminuzione della sua aggressività. E’ un auspicio. Tanti virus si comportano così, quindi c’è un razionale scientifico a sostegno di questa tesi. Ma non conosciamo abbastanza questo tipo di virus per affermarlo. Per esempio si è notato che il virus Ebola, nonostante sia più letale del Covid-19, diminuisce pian piano l’intensità virale nel contagio da un soggetto ad un altro. Certo è che stiamo registrando una riduzione della ‘cattiveria’ del Covid-19, però non sappiamo se sia riconducibile all’aumento delle temperature, all’adozione dei comportamenti corretti da parte dei cittadini, alle maggiori competenze di cura e diagnosi acquisite dai medici o alla catena di trasmissione. Sono solo ipotesi di lavoro, non c’è nulla di scientificamente dimostrato”.

– Ritiene che questa drammatica esperienza servirà a far prendere coscienza, soprattutto alla politica, dell’urgenza di affrontare le problematiche ambientali?

“Questa presa di coscienza è indispensabile per la politica e per i cittadini e già ci si sta muovendo in questa direzione. Il comune di Milano, ad esempio, non ha diminuito il numero delle corse dei mezzi pubblici nonostante siano semivuoti, il servizio di bike sharing è molto utilizzato, si è registrata un’impennata nella vendita di biciclette e monopattini, ma ora è necessario andare oltre, implementando il bike sharing, estendendo la copertura del servizio dal centro fino alla periferia, sviluppando ulteriormente l’offerta di trasporto a basso impatto e perfezionando il trasporto internodale. Anche incentivare il lavoro agile, alternando i giorni lavorativi in presenza fisica con quelli di lavoro da casa, può rappresentare sicuramente un’alternativa agli spostamenti quotidiani, determinando così benefici in termini di riduzione di emissioni degli agenti inquinanti. La pandemia ci ha fatto prendere coscienza dell’importanza dell’ambiente e delle relazioni umane e ci ha costretto a rivedere la nostra scala di valori prioritari. A seguito di una crisi così grande, la classe dirigente deve capire che è giunto il momento di governare in maniera partecipativa, accogliendo le istanze che provengono dai cittadini”.

– Considerando la sua esperienza decennale come neonatologo di terapia intensiva, perché questa malattia ha colpito così poco i bambini? Il dato è confermato dalla studio dei test sierologici effettuati a Vo’ Euganeo, che uscirà a breve sulla rivista ‘Nature’ e che dimostra chiaramente come i bambini di età compresa tra uno e 11 anni non si ammalino anche in presenza di una forte esposizione.  Di contro, la ricerca condotta dai medici dell’ospedale di Bergamo, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica ‘The Lancet’, ha evidenziato in alcuni piccoli pazienti, un’innegabile correlazione tra Covid-19 e lo sviluppo della sindrome di Kawasaki, rara malattia infiammatoria.

“Lo studio di Vo’ Euganeo è molto importante perché c’è una componente di analisi che riguarda proprio la popolazione pediatrica. Anche se è una ricerca non esaustiva, perché ha interessato un piccolo numero di bambini (ndr, 234 da zero a 10 anni), ha comunque mostrato come nessuno di quelli ‘testati’ sia risultato positivo al virus pur vivendo in famiglie con persone positive (ndr, 13 bambini su 234). Come rilevato dall’Unicef, nell’epidemia di Covid-19 si è rilevato un numero di infezioni tra i bambini e i ragazzi di gran lunga inferiore rispetto a quanto avviene in altri contesti epidemici, con dati di contagio molto bassi e le morti fra la popolazione pediatrica  del tutto eccezionali e riguardano principalmente i bambini immunodepressi. La tendenza risultante dallo studio di Vo’ Euganeo è confermata anche da articoli condotti da medici cinesi ed inglesi sulla popolazione pediatrica e pubblicati su ‘The Lancet medical journal’. Per ciò che riguarda la sindrome di Kawasaki riscontrata nei bambini, c’è il ‘paper’ scientifico dei pediatri dell’ospedale ‘Papa Giovanni XXIII’ di Bergamo (ndr, sempre su ‘The Lancet’) che dimostra come l’epidemia di Sars-CoV-2 sia associata ad un’alta incidenza di una grave forma della malattia di Kawasaki nei bambini. Lo studio si conclude con la previsione di un analogo focolaio di malattia simile a Kawasaki anche negli altri paesi coinvolti nell’epidemia. I colleghi di Bergamo sono stati i primi ad aver osservato il legame Covid-19-sindrome di Kawasaki nei bambini, ma ci sono stati casi anche in altri ospedali lombardi, come per esempio al ‘Buzzi’ di Milano con cinque pazienti ricoverati in terapia intensiva con miocardite”.

– Secondo lei la bassa incidenza di contagio riscontrata nella popolazione pediatrica può essere ricondotta alle recenti vaccinazioni effettuate dai bambini? E a tale proposito, ritiene che la vaccinazione sulla popolazione adulta sia l’unica soluzione per debellare la pandemia di Covid-19?

“Nei bambini il ruolo dei vaccini obbligatori come scudo anti coronavirus non è ancora chiaro, abbiamo una certezza sui numeri, ma non sulle motivazioni. Per principio di prudenza il vaccino va realizzato il prima possibile, mi auguro che, come è già successo per la precedente Sars, quando sarà pronto, la malattia sarà sparita e la somministrazione del vaccino alla popolazione non sarà più necessaria”.

– Lei ha lungamente operato in Paesi in via di sviluppo, come Afghanistan, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, Darfur, Sudan, Khartoum, Malawi, Cambogia. Che incidenza sta avendo il virus in queste zone, di cui purtroppo si parla poco?

“E’ molto difficile da dire perché in questi Paesi i sistemi sanitari hanno una limitata capacità diagnostica, visto che è molto costosa e non è accessibile a tutti. Anche il numero dei letti di terapia intensiva è ridotto e per lo più si trova in strutture sanitarie private. Le notizie che mi giungono dai colleghi che ora si trovano in Afghanistan e Sudan destano grave preoccupazione per la quantità dei casi riscontrati e la fragilità di quei sistemi sanitari. Vero è che nei Paesi in via di sviluppo l’età media della popolazione è bassa, visto che ci sono pochi anziani, ed il coronavirus colpisce prevalentemente la popolazione anziana”.

– Tornando alla Lombardia, pur nella difficoltà di affrontare un’emergenza senza precedenti, che cosa non ha però funzionato dal momento che il “peso” lombardo sul dato nazionale è così schiacciante?

“Sicuramente come già detto, ha pesato il ritardo nella diagnosi, il parziale numero di tamponi effettuati solo su chi presentava la sintomatologia, senza considerare il link epidemiologico, il mancato tracciamento, il rapporto mai decollato fra medicina di territorio ed ospedali, la saturazione dei reparti di terapia intensiva. Sarà poi compito della Commissione d’inchiesta Covid far luce sulle disfunzionalità avvenute in sede di gestione dell’emergenza sanitaria”.

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