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Sharing economy, il quadro resta confuso

Domenico MamoneAccesso contro possesso. La fotografia della cosiddetta sharing economy può essere racchiusa qui, in queste tre parole utilizzate anche per titoli di convegni. In sostanza, parallelamente alla grande crisi esplosa nel 2008, il nuovo modello di utilizzare in modo condiviso un bene anziché acquistarlo ha cominciato a prendere piede. Velocemente in tutto il mondo, Italia compresa.

Semplificando, siamo di fronte all’affermazione della condivisione rispetto all’acquisto del bene. Vale per un’auto, un appartamento, un appartamento, la rete wifi, ecc. I modelli più noti sono quelli di Uber, nota per la concorrenza con i taxi, BlaBlaCar, la startup che consente agli utenti di scambiarsi passaggi in auto, Car2Go

fino a Airbnb, community per l’affitto temporaneo di immobili.

Alla base di questa rivoluzione ci sono le nuove tecnologie. Cioè le piattaforme che consentono l’immediatezza di un servizio.

“Il punto è capire se siamo di fronte a un cambiamento di bisogni e abitudini dei consumatori, in particolare i giovani, o se il ruolo dominante è la caduta del reddito presente e futuro – sintetizza Fabio Sdogati, professore di Economia internazionale del Politecnico di Milano ed uno dei massimi esperti del fenomeno.

In effetti, capire cosa sia veramente la sharing economy e recintarne il raggio d’azione sono nodi ancora irrisolti. Il tema è costantemente dibattuto a livello internazionale. La sua crescita l’ha reso ancora più spinoso.

C’è chi minimizza, leggendoci unicamente una piccola ciambella di salvataggio rispetto alla crisi e al crollo dei redditi. Chi addirittura l’associa alla precarizzazione dei rapporti di lavoro e alla gig economy, quella dei lavoretti tipo le consegne a domicilio in bici. Chi viceversa, con carica ideologica, ci vede una reinterpretazione del capitalismo, spinta dalle nuove tecnologie. Ci sono poi letture più buoniste che ne esaltano gli aspetti di sostenibilità legati alla condivisione, cioè al minor spreco e al riuso, o etiche, con la persona che non è più consumatore subordinato al produttore ma torna al centro del mercato con le sue scelte (soggetti di pari dignità si scambiano beni e servizi). L’attigua definizione di “economia circolare” esalta cittadini che mettono a disposizione competenze, tempo, beni e conoscenze, insomma una summa di valori che alimenta le relazionali umane e modalità alternativa di consumo.

Questa pluralità ha contribuito allo sviluppo di numerose definizioni parallele: da “economia collaborativa” a “Peer2Peer economy”, da “economia on-demand” a “consumo collaborativo” fino a “economia di accesso”. E nel nostro gergo sono entrate espressioni come “car pooling”, “home sharing”, “bike e car sharing”, “taxi peer to peer”, “social eating”, ecc.

Si tratta comunque di nuove forme di imprenditorialità – tante le nuove startup, per il 40 per cento lavorano con beni tangibili, quindi veicoli e alloggi – e di inedite opportunità di lavoro, che finiscono per far affermare nuovi stili di vita. Ma le sottili linee di demarcazione tra le varie componenti di questi galassia attenuano I facili entusiasmi: la condivisione non sempre è un elemento centrale, la mediazione delle piattaforme – e quindi del mercato – è ineludibile e talvolta, sul fronte del lavoro, c’è la riproposizione dell’intramontabile “arte di arrangiarsi”. Quindi ottime le premesse, ma attenzione all’eccessiva emotività: nella sharing economy c’è tanto precariato, semplice trasferimento di denaro e poca produzione. Insomma, va bene la riscoperta della socialità, ma attenzione che non sia una pillola indorata.

(Domenico Mamone)

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