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Tutta colpa di Rumor?

Domenico MamoneUno degli aspetti più sconfortanti dei nostri tempi è che la maggior parte delle decisioni politiche sono condizionate dai contesti emergenziali in cui vengono prese. I gravi problemi economici del nostro Paese finiscono per vincolare e, in un certo senso, per ridimensionare ogni proposta, anche la più coraggiosa, perché volenti o nolenti si è costretti a fare i conti con il portafogli vuoto.

Le ormai arcinote battaglie condotte negli ultimi mesi dalle due anime del governo gialloverde per dar vita al reddito di cittadinanza e alle modifiche alla legge Fornero trovano resistenze non tanto per i contenuti delle proposte, in parte condivisibili a fronte della dilagante povertà e dell’alienazione di tanti lavoratori dopo quarant’anni di logorante attività, quanto per i conti già disastrati dello Stato. Fare ulteriore deficit – e quindi appesantire il bilancio con nuovi interessi sul debito – accende legittime preoccupazioni. Anche perché l’obiettivo realistico della manovra, come abbiamo già scritto, non è la crescita ma la fidelizzazione di una parte dell’elettorato da parte di Cinquestelle e Lega.

Proprio questo governare tenendo conto dei risultati elettorali e della gestione ottimale del proprio “feudo” elettorale è un vecchio vizio italico che ha prodotto quei danni di cui stiamo pagando le conseguenze (e le pagheranno, purtroppo, anche le future generazioni).

Ad esempio, per molti sono rientrati in questa logica – cioè di un regalo alla vigilia del voto per le Europee del 2014 – anche gli 80 euro messi in busta paga dal governo Renzi a quasi dieci milioni di italiani (11,2 milioni, ma quasi due milioni li hanno dovuti restituire tutti o in parte, dati Mef). Questa iniziativa, indubbiamente benefica per tanti cittadini, costa però a tutta la comunità circa dieci miliardi di euro ogni anno, che ovviamente appesantiscono il deficit. Si tratta, tra l’altro, di rubinetti lasciati aperti e che nessuno osa chiudere per non perdere il consenso dell’ampia platea di beneficiari. Insomma, gli 80 euro sono lì e ogni anno dieci miliardi occupano stabilmente le uscite del nostro Stato, cioè di tutti noi.

L’esempio più clamoroso di questo modo di procedere risale addirittura al 1973 e ne stiamo pagando ancora pesanti conseguenze. Si tratta delle cosiddette “pensioni baby” che, secondo molti analisti, ci costano ancora lo 0,4 per cento di Pil l’anno. Cioè una montagna di soldi.

Era esattamente il 29 dicembre 1973 quando il governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor sfoderò un decreto del presidente della repubblica (all’epoca era Giovanni Leone) destinato ai dipendenti pubblici: le donne sposate e con figli che avessero lavorato per 14 anni, sei mesi e un giorno avevano già diritto alla pensione piena. Per tutti gli altri statali sarebbero stati sufficienti 20 anni, mentre per i dipendenti degli enti locali 25 anni. Il provvedimento, ironia della sorte, venne votato sia dalla maggioranza sia dall’opposizione, che ovviamente non si voleva inimicare l’ampio bacino elettorale dei pubblici dipendenti. Silenzio anche dal mondo sindacale.

Andò in pensione un esercito di persone, molte di poco più di trent’anni, che oltre a garantirsi un assegno a vita – moltissimi ancora lo incassano – si sono assicurati anche il diritto acquisito, quindi intoccabile. I “pensionati baby” percepiscono mediamente circa il triplo di quanto hanno versato durante la loro attività lavorativa. I costi a carico alle generazioni future? Secondo stime attuali si tratta di circa 7,5 miliardi di euro l’anno.

Inutile aggiungere che si era alla vigilia delle elezioni amministrative in otto importanti comuni e nella provincia di Avellino: la Democrazia cristiana prevedeva un tonfo e invece anche il regalino previdenziale a tanti “virgulti” nel fiore degli anni garantì al partito di governo il pieno di voti nella provincia irpina (11 seggi su 30) e la netta affermazione come primo partito in ben sette città su otto.

Molti “pensionati baby”, in realtà, non si sono messi in pantofole, ma hanno continuato a lavorare, spesso in settori differenti, sottraendo quindi posti di lavoro ad altre persone.

Per cancellare questa norma imbarazzante ci sono voluti quasi vent’anni. Due decenni che hanno prodotto schiere di “pensionati baby”. La retromarcia è avvenuta soltanto nel dicembre 1992 con il decreto legislativo 503.

Insomma, i problemi non si creano soltanto nel momento in cui si approvano norme imbarazzanti e deleterie, ma soprattutto per il futuro, in quanto nessuno si prenderà la briga di inimicarsi i beneficiari.

(Domenico Mamone)

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