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“Schiara” Ferragni

La pioggia di sdegno contro Chiara Ferragni, al di là della “dimenticanza” economica nell’attivismo solidale, nasce fondamentalmente da una motivazione: l’influencer cremonese impersona la punta dell’iceberg di quel “sistema dell’effimero”, di stampo prevalentemente statunitense e figlio di un consumismo ormai complessivamente senza etica, che domina gran parte del nostro pianeta.

Certo, la società dell’immagine narcisistica c’è sempre stata, con radici nelle statue delle personalità di potere in Grecia e a Roma o nei quadri delle corti medievali. Ma l’irrompere di mezzi di comunicazione sempre più performanti, dal cinema alla tv fino ai social, ha reso ossessivo il culto dell’apparenza, che nei poliedrici business dei Ferragnez ha un campione esemplare.

Luchino Visconti, nella splendida pellicola Bellissima con la magistrale Anna Magnani, oltre settant’anni fa già fotografava questo mondo superficiale e labile della vanità fatta di celluloide: una mamma non aveva più freni inibitori pur di introdurre la propria figlia nel “malato” universo cinematografico, impersonato principalmente dal cinico Walter Chiari. Il “ravvedimento” finale accentua ancora di più i pericoli di un’ambizione smisurata collegata all’effimero.

Pier Paolo Pasolini, negli anni immediatamente seguenti, profetizzava un triste degrado morale conseguente ad una società in cui le solide radici culturali sarebbero state annientate dalla fede nei desideri fallaci e nei consumi.

A questi intellettuali oggi possiamo addirittura affiancare Amedeo Grieco, il componente del duo comico Pio e Amedeo, impegnato a dichiarare al Corriere della Sera che “Chiara Ferragni è simbolo di degrado culturale”, una “che dice chiedo scusa e do un milione di euro è una persona che sottovaluta l’intelligenza delle persone”.

La stessa premier Giorgia Meloni, fiutando l’argomento di tendenza, ha detto la sua dal palco di Atreju, seppur senza nominare direttamente la protagonista della triste vicenda: “Gli infuencer non sono quelli che fanno soldi a palate mettendo vestiti o borse o promuovendo carissimi panettoni facendo credere che si farà beneficenza, ma il cui prezzo servirà solo a pagare cachet milionari?”.

Il pandorogate, com’è stato definito con semplificazione giornalistica, oltre a farci interrogare su questo mondo delle futilità che sta annientando valori solidi e tradizionali, ha aperto l’ennesimo squarcio sulla pratica della beneficenza diventata una sorta di business istituzionalizzato, regolato dal marketing ossessivo: aziende, personaggi, politici, promuovono azioni solidali e ne danno notizia attraverso campagne promozionali, comunicati stampa, immagine distribuite ai quattro venti. Un tempo si consigliava di fare del bene e dimenticarsene: oggi avviene esattamente il contrario. E questa vicenda emersa proprio alla vigilia di Natale, indubbiamente assesterà un “benefico” colpo a quanti, con non poca ipocrisia, hanno trasformato una pratica che dovrebbe essere individuale e silenziosa in un’industria con fatturati da capogiro. L’ultima tendenza è quella di far propri persino i lasciti testamentari, per la gioia di parenti che si sono presi cura dell’anziano.

L’autenticità, la schiettezza anche un po’ rozza, la naturalezza sono fattori che si stanno sempre più eclissando. Un “certo” progresso fatto di ossessione nella conta dei like prodotti dalle nuove tecnologie e dell’aspirazione al perenne stato di avere sempre i riflettori puntati addosso non porta alcunché di buono. Per fortuna, se tanti si sono “ferragnizzati”, altri se ne guardano bene dal porre l’immagine di questa “eroina” dei nostri giorni sul proprio comodino. L’imperativo: “schiara” Ferragni. Dissolviamola.

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