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Occupazione: annate e congiuntura

L’occupazione continua ad essere il primo problema economico e sociale del Paese. Dopo le polemiche dell’estate scorsa, con gli errori sui dati ministeriali, e dopo i segnali positivi, i dati Istat diffusi a dicembre continuano a mostrare una realtà in chiaroscuro. Per il ministro del Lavoro Poletti, è migliorata la “qualità” dell’occupazione. Dichiarazione che è suonata un poco troppo difensiva, in fondo vuol dire che sui numeri si sperava di più, e allora ci si consola sull’interpretazione. Quello che aumenta sono i lavoratori dipendenti, mentre calano quelli indipendenti: i sostenitori della riforma del lavoro (Jobs Act) ritengono che sia iniziata la “bonifica” del vasto mondo dei falsi professionisti a partita Iva precari e poveri, che verrebbero gradualmente assorbiti da forme di contratto più stabili e trasparenti. Su base annua, Poletti tiene a far notare che risultano 410mila disoccupati in meno (-12,3%) e 75mila occupati in più (+0,3%). Il confronto su base annua è corretto, e indica numeri positivi anche se ancora deboli. Le obiezioni riguardano il breve periodo: se sicuramente fare i confronti su base mensile è meno rigoroso, perché, come dice Poletti, ci sono le oscillazioni legate a varie circostanze, pure lascia preoccupati che tra settembre e ottobre, cioè nel momento della ripresa dopo le ferie estive, siano stati persi 39mila posti di lavoro. In quel mese, sono continuati sì a diminuire i disoccupati (-13mila), ma sembra che tornino a salire gli “inattivi”, quelli che insomma a cercare lavoro ci hanno proprio rinunciato. Anche la spiegazione ufficiale del rapporto tra lavori stabili e incerti solleva obiezioni: perché se dividiamo per fasce di età, vediamo che l’occupazione migliora soprattutto nella fascia degli over 50. E’ un bene, perché indica una qualche tendenza a mantenere nel mercato del lavoro persone in un’età delicata, dove la perdita del lavoro può essere una condanna, e magari segnala che qualche precario a vita ce l’ha fatta finalmente, ma anche che molti che in passato andavano in pensione prima, ora rimangono, volenti o nolenti, aggrappati al posto per l’allontanarsi della pensione; è quindi  un male, perché si direbbe che si perpetui il detto che “questo non è un Paese per giovani”, visto che questi ultimi continuano a non riuscire a salire sulla barca,dove i 50 e 60enni non vogliono e non possono fare spazio. Vi è poi la questione demografica: calano gli occupati giovani anche in cifre assolute, semplicemente perché si iniziano a sentire gli effetti del progressivo calo delle nascite dagli anni 80 in poi. In questo senso, l’immigrazione è stata fondamentale nel bilanciare gli effetti negativi sul monte contributivo Inps. La crescita degli inattivi riguarda anch’essa i giovani, i famosi e famigerati NEET (acronimo inglese per dire “né in educazione, né impiegati, né in formazione”). Il programma europeo della Garanzia Giovani doveva essere una soluzione strategica, ma in Italia la GG non decolla, ma molti motivi, di cui il più grave è nella debolezza strutturale della rete di agenzie per il lavoro sul territorio, che dovrebbero fare da intermediari tra giovani e imprese, ma sono sottodimensionati rispetto ai mdoelli europei. Infine, può bastare il Jobs Act, in una situazione in cui l’agricoltura e il turismo hanno difficoltà (embargo alla Russia e paura del terrorismo), e in cui l’industria italiana non riesce, storico problema, a investire in ricerca e sviluppo, con i loro 190 euro per abitante, contro una media europea di 356 ? La mancanza di innovazione tecnologica è probabilmente il vero limite alla creazione di nuove imprese e nuovo lavoro, come dimostra anche che i nuovi occupati si concentrano nelle fasce meno attraenti dal punto di vista retributivo.

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