Con il passaggio all’annuale Forum di Cernobbio, il premier Gentiloni ha collocato alcune bandierine che chiariscono meglio il proprio programma di governo.
Innanzitutto ha indicato nel rilancio dei consumi interni l’obiettivo primario per il Paese. In effetti, se i settori produttivi votati all’export registrano da tempo ottime performance sull’onda dell’ineclissabile “Made in Italy”, la domanda interna resta da tempo molto flebile, a causa principalmente della progressiva perdita del potere d’acquisto dei consumatori (anche l’euro c’ha messo del suo), dell’indebolimento del ceto medio (qui ha inciso l’aumento della pressione fiscale) e il venir meno della fiducia delle famiglie.
Il presidente del Consiglio non ha nascosto la sua “percezione di un certo miglioramento del clima economico e delle prospettive”, ribadendo però che si deve lavorare per fermare l’altalena dei dati. Insomma, una crescita finalmente sostenuta toglierebbe tante castagne dal fuoco, contribuendo a rilanciare investimenti e competitività (industria 4.0 ed efficientamento energetico tra le priorità), ad attenuare il dramma della disoccupazione, a fornire strumenti per avviare il risanamento dei conti pubblici, ma anche a garantire ossigeno al sistema del credito e ad attutire i divari territoriali.
Indicato l’obiettivo – in fondo comune a quello di precedenti governi – l’attenzione si concentra sulle strategie per raggiungerlo.
Nel recente passato abbiamo assistito al varo di diversi strumenti, che purtroppo hanno disatteso le aspettative: il famoso bonus di 80 euro del governo Renzi, riservato ai lavoratori con redditi tra gli 8mila e i 26mila euro, non ha prodotto sensibili effetti sui consumi, mentre la decontribuzione per i neoassunti a tempo indeterminato, costata una ventina di miliardi, ha avuto esiti contraddittori, tra il boom iniziale e il crollo di assunzioni nelle ultime stagioni (i dati diffusi solo qualche giorno fa: 900mila licenziamenti nel 2016, con un aumento del 5,7 per cento rispetto al 2015).
Nei prossimi mesi, superato a breve lo scoglio della manovra-bis, ci si concentrerà sulla legge di Bilancio del 2018. I rumors anticipano la carta dal mazzo del premier: il taglio del cuneo fiscale, cioè la differenza tra quanto costa un lavoratore all’azienda (tra stipendio, tasse e contributi) e quanto il dipendente percepisce in busta paga.
C’è un illustre precedente: il governo Prodi, con Tommaso Padoa-Schioppa al Tesoro e Pierluigi Bersani allo Sviluppo economico, decise di abbattere il cuneo fiscale di sette miliardi e mezzo, un taglio netto al costo del lavoro del 5 per cento, di cui tre a favore delle imprese e due per i lavoratori. I risultati sono poco “leggibili” in quanto l’anno seguente – 2008 – ebbe inizio la grande recessione.
A dieci anni di distanza, la misura di fine 2017, da almeno dieci miliardi, potrebbe favorire sia i neoassunti sotto i 35 anni sia i redditi fino a 40mila euro. Un intervento sicuramente condivisibile perché affianca gli incentivi alle assunzioni di giovani con i benefici per le aziende e per i lavoratori già assunti, quelli appunto con redditi fino a 40mila euro. Insomma, un piano organico e non interventi spot, quasi sempre scollegati tra loro. Se a ciò s’affiancasse una radicale riduzione dei privilegi e una seria lotta all’evasione fiscale, per garantire un efficace riequilibrio sociale anche attraverso la riduzione delle tasse, forse si riuscirebbe a recuperare anche un po’ d’ottimismo.
Crediamo, quindi, che intervenire sul cuneo fiscale rappresenti sicuramente un buon segnale. Perché si ridurrebbe una delle tante zavorre italiane. Per entità del “cuneo”, il rapporto “Taxing wages” dell’Ocse colloca il nostro Paese al quarto posto tra le nazioni più industrializzate. Ad incidere è soprattutto la pressione fiscale, ma anche il peso contributivo. E proprio questo sarà l’aspetto più delicato della manovra: dove raccogliere i dieci miliardi di euro evitando il solito “scambio tra imposte”?
(Domenico Mamone)
UNSIC – Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori
