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Riforma: la zavorra delle “partecipate”

riformaQuando, negli ultimi cinquant’anni, s’è trattato di moltiplicare i centri di spesa – dall’istituzione delle Regioni alla proliferazione delle Province, dall’incremento delle Comunità montane alla nascita delle Authority – le norme sono state varate in un batter d’occhio. Così come le liste delle assunzioni. Oggi che bisogna dolorosamente intervenire sugli enormi sprechi determinati anche dalla propagazione di questi organismi, i tempi per i decreti di taglio sono biblici. E il più delle volte le montagne partoriscono i topolini.

Del resto i tanti che hanno provato a metter mano alla delicata materia della spending review hanno fatto una fine analoga a quella di qualche rappresentante della nobiltà e del clero nel corso della rivoluzione francese. Insomma, c’hanno lasciato le penne.

Emblematica, in proposito, la vicenda delle società partecipate pubbliche.

Venute al mondo, dall’oggi al domani, nell’ormai lontano 1990, con la legge 142, dovevano consentire agli enti locali di svolgere attività pubbliche comportanti l’esercizio d’impresa. Nate, quindi, come società strumentali, nella prassi sono diventate aziende in grado di eludere vincoli pubblici, ad esempio assumendo senza concorso, beneficiando di iniezioni finanziarie pagate dai cittadini e rendendosi protagoniste di frequenti episodi di “malcostume”, tanto per usare un eufemismo.

Inoltre, in molti casi, queste società hanno finito per fare concorrenza ad aziende private o per frenare la modernizzazione, estendendo logiche burocratiche e assistenziali anche al settore imprenditoriale. Le “partecipate”, drenando risorse pubbliche (e spesso sovrapponendosi a competenze già in mano pubblica), hanno pesato sulla pressione fiscale e tariffaria – soprattutto locale – su cittadini e aziende private, finendo per concorrere a disincentivare consumi e investimenti.

Il caso del Comune di Roma è diventato “scuola”. L’amministrazione della Capitale, oltre ad avere in dotazione 52 tra fondazioni e associazioni, per anni ha disposto di ben quaranta società partecipate che hanno dominato il mercato romano. Queste, oltre ad accumulare deficit spaventosi, hanno offerto il più delle volte servizi indecenti per la città-simbolo del nostro Paese. Oltre alle filiere di “parentopoli”, hanno offerto parecchio lavoro soprattutto alla magistratura.

L’ex premier Renzi, nella sua strategia della rottamazione, aveva incluso le società partecipate nei tagli agli sprechi. Nell’aprile 2014 aveva annunciato l’intenzione di volerle ridurre “da ottomila a mille”, dal momento che registravano “circa un miliardo e mezzo di disavanzo”. In un tweet del 15 ottobre 2015 aveva ribadito l’obiettivo della drastica riduzione.

La riforma Madia della pubblica amministrazione, che avrebbe dovuto attuare – almeno in parte – tali intenti, come è noto ha avuto un percorso intricato. E’ finita sotto la scure della Consulta, che con sentenza 251/2016 l’ha sonoramente bocciata, imponendo l’«intesa» e non il semplice «parere» di Regioni ed enti locali, Ciò ha costretto il governo (con Gentiloni nel frattempo subentrato a Renzi) a rimettere mano ai testi. Ma anche il Consiglio di Stato ha bacchettato l’esecutivo perché il decreto correttivo non è scaturito da un’analisi dei problemi emersi con il provvedimento originario. In qualche caso “le toppe” hanno complicato la situazione, come nell’eccessiva arbitrarietà del potere, attribuito al premier, di disporre eccezioni allo sfoltimento delle società partecipate. Il Consiglio di Stato – nelle osservazioni di circa un anno fa – ha espresso dubbi su quale fosse “la natura e il fondamento di tale potere”, chiedendo che “le precise condizioni” per il suo esercizio fossero definite nel decreto stesso. La riscrittura del decreto ha, appunto, peggiorato la situazione, conferendo il potere di salvare le partecipate dal “taglio” anche ai presidenti delle Regioni. Permettere ad “un’autorità regionale di derogare, con suo provvedimento, ad una disciplina statale generale propria dell’ordinamento” costituisce “un’ulteriore ed ancor più grave criticità” secondo il Consiglio di Stato. Insomma, l’arbitrarietà dei tagli ha trovato terreni fertili.

Nonostante le reiterate lungaggini e le oggettive tortuosità di questo iter, nei giorni scorsi per la riforma delle società partecipate è arrivata l’ennesima tegola: un terzo rinvio e le maglie che si sono ulteriormente allargate.

Innanzitutto è stato concesso altro tempo per redarre i piani di razionalizzazione delle partecipate pubbliche (piani che avranno poi un anno di tempo per essere attuati con la dismissione o la chiusura delle aziende fuori regola): la nuova data-limite è il 30 settembre 2017, che sostituisce il 23 marzo scritto nel decreto originario. Quindi, ennesimo rinvio.

In secondo luogo, le aziende con fatturato tra 500mila e un milione di euro non dovranno chiudere subito i battenti, come prevedeva la prima versione del testo, ma saranno“tranquille” almeno fino al 2020.

Ancora: sono state salvate le municipalizzate che gestiscono casinò (Saint Vincent, Campione, Sanremo e Venezia), ora del tutto immuni dalla sforbiciata.

Le società degli enti locali che non hanno bilanci in perdita strutturale, poi, potranno partecipare a gare anche fuori dal territorio dell’amministrazione proprietaria.

Insomma, il roboante intento rottamatorio sembra davvero destinato ad annacquarsi.

Lo stesso Roberto Perotti, il docente della Bocconi che nel 2015 ha affiancato Yoram Gutgeld alla revisione della spesa pubblica, in un intervento su Repubblica dei giorni scorsi si dice convinto che la riforma Madia non solo produrrà ben pochi risultati – limitandosi ad elencare cosa dovrebbero o non dovrebbero fare le partecipate anziché cercare di intervenire più in profondità, colpendo le cause di sprechi e inefficienze – ma potrebbe addirittura aumentare “le poltrone” attraverso la crescita degli organi di controllo: oltre agli esistenti collegio sindacale e organo interno di vigilanza, partirà infatti il nuovo “ufficio di controllo interno”.

Del resto questa nebulosa delle partecipate presenta lati oscuri persino a chi intende analizzarla nel dettaglio: sul numero delle aziende, ad esempio, circolano versioni che vanno dalle 10mila unità (Cottarelli, ex commissario alla spending review), alle ottomila di fonte ministeriale, alle 7.181 rilevate dalla Corte dei conti nel 2016 (ma solo 4.127 con dati di bilancio disponibili), fino alle 3.200 censite dallo stesso Perotti, che ha escluso quelle “insignificanti” per il taglio perché con minima partecipazione pubblica. Analoga divergenza si riscontra sui possibili risparmi: Cottarelli parlò di tre miliardi di euro, ma gli “ammorbidimenti” delle ultime versioni faranno sicuramente scendere drasticamente questa cifra. In 1.279 organismi, secondo la Corte dei conti, ci sarebbero più amministratori che dipendenti. Una giungla inestricabile.

Insomma, siamo di fronte all’ennesima riforma gattopardesca “all’italiana”?

 

(Domenico Mamone)

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