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Tassi al minimo e quantitative easing: fino a quando?

presidenteIl consiglio direttivo della Banca centrale europea, rispettando le previsioni, ha, dunque, lasciato invariati due dei principali fattori strategici della politica economica comunitaria: i tassi “al minimo storico” (zero sulle operazioni di rifinanziamento principali, 0,25 per cento sulle operazioni di rifinanziamento marginale e -0,40 per cento sui depositi presso la banca centrale) e le iniezioni di liquidità alle banche (quantitative easing) fino a dicembre 2017 al ritmo di 60 miliardi al mese (con punte, mesi addietro, anche di 80 miliardi). Tutto ciò potrebbe proseguire oltre.

L’inflazione, altro tema al tappeto, arriverà massimo all’1,5 per cento nei prossimi due anni; per il 2 per cento, tanto agognato a Francoforte, occorrerà attendere almeno il 2020.

C’è, poi, il capitolo del rafforzamento dell’euro, tendenza che potrebbe raffreddare le esportazioni europee; ma le previsioni di crescita del Pil nell’eurozona, tra l’altro riviste al rialzo (2,2 per cento quest’anno, 1.8 nel 2018 e 1,7 nel 2019) lasciano ben sperare.

Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, giudicando la crescita “solida e ben diffusa”, continua insomma a premiarne gli stimoli, che – guarda caso – coincidono con la “sua” politica di incentivo monetario e di tassi d’interesse bassi. Se la deve vedere, però, con i desiderata controcorrente di una Germania in campagna elettorale: il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, non nasconde la propria contrarietà sia ai tassi di interesse bassi sia soprattutto ai programmi di acquisto dei titoli, cioè allo stimolo monetario in corso che costituisce proprio il “fiore all’occhiello” del governatore italiano. Non a caso i tedeschi stanno già lavorando per piazzare un proprio uomo (lo stesso Weidmann?) come successore di Draghi nel 2020. Del resto la tentazione teutonica, abbastanza congenita, è quella di predominio economica nel vecchio continente, comprendendovi il mercato dei titoli pubblici.

Non stupisce, allora, che l’attenzione degli analisti in questi giorni si concentri proprio sugli effetti di quel “coniglio dal cilindro” che è il quantitative easing, Tra favorevoli e contrari, una verità condivisa è impossibile, come in tante discussioni economiche. Di certo il quantitative easing si traduce in una forma di finanziamento strutturale degli Stati permettendo a Paesi come Italia, Spagna e Portogallo di mantenere la testa fuori dalle sabbie mobili della speculazione, della pressione sui debiti pubblici nazionali e delle sferzate dello spread. Attraverso l’acquisto di titoli da parte della Banca centrale – titoli di Stato, delle istituzioni europee, obbligazioni di grandi gruppi (come Eni, Enel ed Fs in Italia) e, dal 2017, anche degli enti locali – gli istituti di credito stanno beneficiando da quasi tre anni di grande liquidità. Le banche, però, dovrebbero immetterla nell’economia reale principalmente attraverso prestiti a imprese e famiglie. E qui sta il nodo: con quale intensità ciò sta avvenendo? Scarsa e insufficiente, secondo molti osservatori.

Ma ci sono altri problemi che il fiume di liquidità sembrano aver attenuato solo in parte: la deflazione, cioè la riduzione dei prezzi (esempio lampante nel mercato immobiliare) e la recessione sono spauracchi non del tutto superati. Se le imprese stanno beneficiando della ripartenza dell’export, nel contempo, proprio a causa di prezzi poco competitivi, non riescono a coprire agevolmente i costi. A ciò si sommano i cronici ritardi nei pagamenti, anche e soprattutto da parte pubblica. Ciò spiega, almeno in parte, perché la “ripresina” di ordini e produzione – e non di grande ottimismo – non si traduce in benefici per l’occupazione e per gli investimenti.

C’è un altro effetto del quantitative easing: la montagna di soldi che non finisce nell’economia reale viene spesso calamitata da quei circuiti finanziari responsabili di tanti guai (ricorda qualcosa la locuzione mutui subprime?). Guai soprattutto sociali, con spinte smantellatrici dello stato sociale a furia di privatizzazioni che della lezione di Adam Smith hanno poco o nulla (leggi speculazioni) e costante precarizzazione del lavoro.

Nel nostro Paese, poi, le criticità sono ancora più rilevanti. Con riforme strutturali assolutamente insufficienti, una spending review di fatto abortita (privilegi duri a morire) e un debito pubblico che continua spaventosamente a crescere, lo smantellamento del quantitative easing e la crescita dei tassi determinerebbe molto probabilmente un inasprimento della pressione fiscale e una nuova riduzione dei consumi e della crescita. Ecco perché sarà importante conoscere le fasi del cosiddetto tapering, cioè le modalità di rallentamento nel ritmo di acquisto di asset sul mercato. Argomento cruciale di cui si parlerà, inevitabilmente, nella prossima riunione della Bce fissata a fine ottobre.

(Domenico Mamone)

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