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“Sostenibilità”, concetto semplice e complesso

sostenibilità

Sostenibilità. La parola è di moda, senza dubbio: si usa molto, ma si ha anche l’impressione che spesso chi la usa non sa bene di cosa stia parlando. Si tratta infatti di un concetto assieme semplice e complesso: da un lato è intuitivo, ovvio; dall’altro lato richiede invece di mettere in campo competenze e conoscenze per trasformare le nostre città, i nostri sistemi produttivi, le nostre aziende.

La sostenibilità nel suo versante semplice e intuitivo è il buon senso dell’uso razionale delle risorse: se avete cento euro non potrete comprare una giacca che ne costa mille, è appunto “insostenibile”. Partendo da quest’esempio, possiamo subito vedere che subito interviene una crescente complessità: se la giacca costasse soltanto cento euro, non per questo sarebbe saggio comprarvela, perché poi non avreste i soldi per comprare da mangiare, almeno finché non ve ne arriveranno degli altri, e allora dovete poter prevedere quando e quanti. Fino qui, è ancora comunque una semplice norma di bilancio: calcolare le entrate e le uscite. Ma questo normale calcolo di sostenibilità economica non è l’unico criterio importante: se dal vostro punto di vista personale, cioè, passiamo a quello, molto più ampio, degli interessi della società, entrano in gioco altri tipi di calcolo. Quella giacca che volete comprare è stata prodotta da operai che hanno ricevuto un salario equo ? E in quali condizioni di lavoro ? Se quegli operai sono sottopagati, e magari lavorano in condizioni insalubri, per esempio con detergenti chimici tossici, abbiamo un problema. Attenzione, non è solo un problema morale o legale (“non si fa”): il compratore e il produttore di questa benedetta giacca potrebbero dire tanto peggio per gli operai, a noi conviene così, è la dura legge del business. Ma non è così: si tratta di un business da cialtroni, dove alla fine tutti perdono.

Il compratore potrebbe avere una dermatite, per i prodotti chimici di cui è impregnato il tessuto; e anche il produttore non è così al sicuro, perché il suo business tossico non ispira certo i suoi dipendenti alla lealtà aziendale, ma anzi può e deve aspettarsi proteste, scioperi (e se ci trovassimo in un regime dittatoriale, l’efficienza non sarebbe garantita, la protesta impedita per vie legali si esprimerebbe con il furto, il sabotaggio, la violenza). Poi, la contaminazione ambientale della produzione di migliaia di giacche con quei detergenti chimici alla fine avvelena l’aria che anche lui respira e l’acqua che anche lui beve. Qui abbiamo quindi dei veri e propri costi, di tipo sociale e ambientale, che prevalgono sulla semplice contabilità dell’azienda produttrice della giacca.

I costi per la società e per il pianeta di quella semplice giacca hanno anche alcune altre caratteristiche importanti: in parte, sono perfettamente monetizzabili, per esempio i costi sanitari, o quelli di compensare con sorveglianti e controlli lo spettro della rivolta operaia; in altra parte, si tratta di costi difficili da tradurre in cifre, come la sofferenza per una malattia, o i danni all’ambiente. Questo non significa che non siano gravi, anzi, si potrebbe parlare di costi “incalcolabili”, cioè che non valgono tutto l’oro del mondo. Ecco perché nei grafici di sostenibilità i costi economici sono soltanto una parte dei costi generali, e la loro fattibilità è limitata dai costi sociali, e questa a sua volta dai costi ambientali.

C’è un modo perverso per sfuggire a questo doppio limite per un operatore economico: si può tentare di rompere i limiti ambientali e sociali, scaricando sugli altri, sulla collettività i costi delle proprie azioni. In generale, possiamo vedere che è quello che avviene nei Paesi i cui governi non riescono a garantire sufficiente legalità e controlli. Sono anche quelli dove le cose vanno peggio: un’economia che non sia sostenibile socialmente ed ecologicamente non produce “almeno” più profitti, ma sprechi, spese e caos.

La sostenibilità richiede evidentemente un cambio di mentalità, nella direzione di una maggiore consapevolezza: tutti, imprenditori e consumatori, lavoratori e cittadini siamo legati gli uni agli altri. E richiede regole, prima ancora che le leggi e punizioni: regole che vengano fatte proprie dalle aziende e che diventino criteri di produzione e di lavoro. Non si tratta di imporre dall’alto in maniera arbitraria dei vincoli sull’economia, ma, al contrario, si tratta ci comprendere la natura e il funzionamento di questi vincoli, che sono oggettivi, semplici elementi della realtà. Viviamo in un pianeta con risorse limitate, con una quantità determinata di acqua ed ossigeno. Operiamo entro società dove la democrazia politica, il negoziato sindacale, la trasparenza verso i consumatori, per quanto complicati e imperfetti, sono comunque migliori di ogni altra soluzione, che non può essere che inevitabilmente arbitraria, violenta e per questo destinata al fallimento sul lungo periodo. Se però cambiamo il modo con cui guardiamo ai vincoli della sostenibilità, non come ad ostacoli per la produzione ma come elementi di un quadro da interpretare e valorizzare, non solo la sostenibilità da semplice limite può diventare invece opportunità.

Esiste un modo virtuoso per espandere i vincoli ambientali e guadagnare spazio d’azione: investire in tecnologia, che può rendere sostenibile quello che sostenibile sinora non è. Esiste un modo virtuoso per dimostrare la propria attendibilità ed affidabilità ai consumatori: offrire informazione e trasparenza, che permette di consolidare la propria clientela molto meglio che con menzogne pubblicitarie. Esiste un modo per contenere i conflitti sociali: dotarsi di codici etici, di criteri di concertazione sindacale, che permettano di costituire un clima di lealtà e di persino di solidarietà in azienda. E’ del resto insegnamento consolidato, nella storia economica, che il benessere dei lavoratori è inestricabile dalla capacità delle aziende di espandere i propri acquirenti, almeno da quando, e ormai sono secoli, si è visto che produrre prodotti affidabili anche se economici per molti è più redditizio che produrre raffinati prodotti di oro e seta per pochi.

In questo senso, l’industrializzazione massiccia delle nostre economie è un’esperienza a due facce: ha sì messo a dura prova l’equilibrio ambientale, inquinando, alterando il clima, consumando risorse, ma ha anche, almeno potenzialmente, sviluppato dentro di sé le capacità di innovazione che possono farci arrivare alle tecnologie “verdi e dolci”. Ha anche sradicato milioni di persone dalle campagne, prima a livello nazionale e poi a livello globale, facendole immigrare nelle metropoli: ma ha anche consentito, magari involontariamente ma necessariamente, le condizioni di organizzazione sindacale e di costruzione della democrazia. La sostenibilità quindi, non è qualcosa che ostacola il progresso: è invece il criterio di misura di un progresso intelligente, che può durare per noi e per i nostri figli.

LUCA CEFISI

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