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Il film che riaccende i riflettori sulla stagione di Craxi

Dopo l’immancabile ciclone di Checco Zalone, che ha monopolizzato le cronache cinematografiche e anche quelle di analisi politica dei messaggi del comico pugliese, ora grandi attenzioni sta ricevendo il film “Hammamet” di Gianni Amelio, racconto sugli ultimi sei mesi di Bettino Craxi, esule contumace in Tunisia. Una pellicola che suscita interesse anche per la straordinaria prova di Pierfrancesco Favino, uno dei migliori attori del nostro cinema, che si è sottoposto ogni volta a cinque ore di trucco per vestire nel miglior modo i panni del leader socialista.

Il film ha il merito di riproporre una fase emblematica per la vita – anche futura – del nostro Paese. Un periodo che suscita analisi quanto mai contrapposte tra un’Italia protagonista sulla scena internazionale e che conquistò il ruolo di quinta potenza mondiale, condizione spesso citata dai nostalgici del craxismo, ma anche di un Paese preda dello spreco e della peggiore corruzione, dai confronti aspri e dilanianti, con un debito pubblico crescente, di cui paghiamo ancora le conseguenze. Ma anche di una politica che ha cominciato a degradarsi in puro spettacolo e ad allontanarsi dalle folle.

Come tante ferite aperte nella nostra storia, non sarà facile giungere ad una verità condivisa. Il regista s’è soffermato sugli aspetti umani del personaggio, in particolare sulle sofferenze nel tramonto dell’esistenza, forse proprio per evitare di gettare sale sulle ferite. Per cui le analisi conseguenti non possono che confermare questa costante contrapposizione.

Così Stefania Craxi, figlia del leader socialista, non può ovviamente che leggere l’opera nel verso a lei più congeniale, evidenziando “il riconoscimento – da parte di un mondo a noi lontano e in teoria pregiudizialmente ostile, ancora oggi, quello a cui appartiene il regista – della grandezza, della solitudine e del dolore dell’esule”. Ma è altrettanto vero che l’immagine allegorica più citata per la chiusura di quel sipario sono le monetine scagliate davanti all’hotel Raphael, che in fondo preannunciano un altro frame ben evidenziato da Fulvia Caprara sulla Stampa, cioè “la silhouette zoppicante di un uomo imponente e solo, destinato a un epilogo malinconico, peggiore di qualunque condanna”.  

“Hammamet”, al di là dei giudizi sull’opera, determina quindi il riaccendersi delle testimonianze e delle polemiche su quella stagione. Il film lo fa senza prendere una posizione netta. Del resto lo stesso regista si è sempre tenuto lontano dalla politica: “Non ho mai votato per il Partito socialista o simpatizzato per Bettino Craxi quando era in vita – ha precisato alla rivista Ciak.

Il critico Paolo Mereghetti, sul Corriere della sera, bene fotografa questa “sospensione di giudizio” con il neologismo di film “felliniansciasciano” (“il cabaret che sembra uscito da Roma di Fellini, una misteriosa registrazione che non sarebbe dispiaciuta allo Sciascia di Todo Modo – scrive Mereghetti), con un finale che moltiplica i punti di domanda. “Evidentemente il ritratto di un uomo sconfitto dopo aver esercitato un grande potere, convinto di essere oggetto di una persecuzione politica e per questo deciso a combattere fino alla fine rappresentava un soggetto di grande fascino per un regista che si è spesso misurato con i nodi tra la psicologia e la vita, tra il privato e il pubblico – osserva il critico del Corriere.

Al di là della pellicola, l’uscita del film offre soprattutto l’opportunità per riflettere, a distanza di ormai oltre tre decenni, sul quel periodo, tra l’altro oscuro per almeno un paio di nuove generazioni.

Lo fa, ad esempio, lo stesso Favino intervistato da Arianna Finos. “Secoli fa i drammaturghi sceglievano i Re per raccontare che, come agli altri uomini, anche a loro tocca fare i conti con la morte e la perdita del potere. Un potere che non è solo fisico, politico, economico ma anche delle relazioni, di ciò che si pensa di aver costruito. Se ci si scorda un attimo che stiamo parlando di una persona realmente esistita, il tema del film è questo”. E ancora: “Oggi ho cinquant’anni, sono trascorsi trent’anni di storia del Paese. A venti vuoi cambiare il mondo. La vicenda Craxi, Mani pulite in generale, ha strappato alla mia generazione la pagina in cui c’era scritto quel che potevamo fare. Vedevamo disgregarsi molte cose in cui avevamo creduto, restavamo un po’ senza piedi. Non per svicolare, ma penso che della vicenda politica di quegli anni debbano parlare le persone che si occupano di questo. Di allora mi piaceva che chi parlava aveva la preparazione per farlo”.

E lo fa Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano e cognato di Craxi, intervistato da Piero Colaprico. “Solo dieci anni fa questo film sarebbe stato impossibile. Quindi è un bene comunque che esista. Non dico che gli italiani rimpiangano noi della Prima Repubblica, ma sanno, almeno i più vecchi, che noi discutevamo, studiavamo argomenti e situazioni e lo stesso Bettino era un gigantesco rompicoglioni. Io e Carlo Tognoli dicevamo che avevamo fatto questo e quello e lui diceva: ‘E Quarto Oggiaro? E Gratosoglio?”

Le analisi del periodo sono quelle che più dividono. Natalia Aspesi su Repubblica, sebbene con un titolo graffiante (“L’Italia sporca di Craxi”), è indulgente nel testo, specie nel confronto con l’Italia contemporanea: “C’erano disastri anche allora, ma i politici parlavano di politica, di ciò che era il Paese e di cosa poteva diventare. E il voto segnalava oltre a scelte economiche, anche quelle morali, civili: non si può immaginare Andreotti che si facesse ritrarre in mutande a bere alcol, né Amato a farsi fotografare mentre cadeva sciando. C’era una idea di compostezza, di decoro, che magari nascondeva massime porcherie, ma la carica non subiva oltraggi, e quello che oggi si autoproclama popolo, non insultava il presidente della Repubblica, non si umiliava dimenticando la sua funzione di rappresentanza per tutti noi – scrive la Aspesi.

Tutt’altra lettura quella di Gianni Barbacetto sul Fatto quotidiano, con un titolo emblematico: “Una Salò per Craxi che occulta i fatti e tace le mazzette”. Scrive il giornalista: “Tangentopoli non si può spiegare soltanto con il ‘così facevano tutti’, né con l’Italia ‘diventata quinta potenza del mondo’. Ci sono anche le opere pubbliche dai costi decuplicati, l’ingordigia dei partiti, il giro d’affari della corruzione stimato attorno ai 10 mila miliardi di lire all’anno, l’indebitamento pubblico che porta il Paese alle soglie di un crac argentino. Non si può spiegare Mani Pulite con un nebuloso complotto antisocialista, forse reazione a una Sigonella ricostruita dal nipotino con un aeroplanino e i soldatini sulla spiaggia; e con il Pci salvato dai giudici; e con le confessioni estorte in cambio della libertà. Tutti i più triti (e falsi) luoghi comuni su Mani Pulite prendono vita sullo schermo, con l’ipocrisia della citazione, senza che il regista li faccia propri… La domanda resta senza risposta, il film sospeso, la storia confusa e irrisolta”.

Ancora più duro Marco Travaglio. Il titolo del suo pezzo è indicativo: “Miliardi di tangenti per uso personale sottratti al partito”. L’attacco è esplicito: “Bettino Craxi muore il 19 gennaio 2000 da latitante ad Hammamet con due condanne definitive (5 anni e 6 mesi per corruzione Eni-Sai, 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito Metropolitana milanese), due in appello (3 anni per i finanziamenti illeciti di Enimont, 5 anni e 6 mesi per corruzione da Enel) e un’altra annullata dalla Cassazione con rinvio ad altro appello (5 anni e 9 mesi per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano nello scandalo del conto Protezione); la prescrizione l’ha appena salvato in appello dopo una condanna a 4 anni in Tribunale per le mazzette di Berlusconi dai conti All Iberian; e gli altri processi in corso in primo grado – per le bustarelle dell’autostrada Milano-Serravalle (corruzione) e della cooperazione col Terzo mondo, nonché per frode fiscale sui proventi delle sue varie tangenti – sono dichiarati ‘estinti per morte del reo’. Se fosse tornato in Italia, sarebbe finito in carcere per un bel pezzo o, viste le sue condizioni di salute, agli arresti in ospedale”.

Insomma, nonostante l’esercito dei carnefici e degli adulatori del leader socialista si assottigli anno dopo anno, non è facile individuare equilibrio nel giudizio storico. Non aveva tutti i torti Manzoni – non a caso qualcuno ha paragonato Craxi all’Innominato, come Federico Pontiggia – quando scrisse che “la storia è una guerra contro il tempo, in quanto chiama a nuova vita fatti ed eroi del passato”.

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