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Calabria: il malaffare danneggia l’economia

L’assassinio del giovane sindacalista Sacko Soumalya a San Calogero, nel reggino, darà per qualche giorno l’occasione di commenti giustamente indignati. C’è il rischio che, come altre volte, torni a calare il silenzi subito dopo. E c’è il rischio che l’indignazione rimanga a un livello superficiale, attestandosi su una lettura semplificata: il razzismo, che certo esiste come sentimento diffuso a macchia di leopardo, ma che non è una diagnosi adeguata e sufficiente per un contesto così complesso. Appare opportuno ripartire dalla base economica del problema: come l’Unsic aveva già segnalato nel 2016, nel particolare contesto dell’agrumicoltura, “il prezzo troppo basso di acquisto delle arance da parte dei grossisti e delle grandi aziende di trasformazione, la filiera troppo lunga. Quando il prezzo di vendita imposto all’ingrosso è di pochi centesimi a cassetta, è difficile ottenere condizioni eque per tutti, lavoratori e imprenditori agricoli”.

Oggi come oggi, anche in altri comparti agricoli e in altri territori, questa problematica è cruciale, a partire dai cosiddetti costi esterni di filiera, quali il costo dei trasporti, dell’energia e del carburante. Altro elemento sono la polverizzazione in una miriade di produttori e di distributori al dettaglio, che se in parte si può far acrivere all’identità italiana, pure appare insostenibile e non paragonabile con la maggior razionalizzazione dei concorrenti europei (tranne, apparentemente, il caso spagnolo).

Se su 100 euro di spesa alimentare l’utile degli attori di filiera risulta ridotto a 3 euro, sproporzionati appaiono in particolare i quasi 6 euro di trasporti e logistica, il costo dell’energia, superiore alla media europea, e i costi di intermediazione (n. b. si approssimano qui dati Nomisma, semplificando a fini divulgativi). Naturalmente, è bene ricordare sempre che il profitto relativamente modesto dei produttori è bilanciato dal regime di aiuti pubblici (Politica agricola europea), senza il quale l’agricoltura semplicemente non si sosterebbe. Data la scarsa incidenza dei profitti sul costo finale, si dovrebbero ridurre i costi, e qui, la compressione del costo del lavoro è apparsa in molti contesti l’unica soluzione, di fronte alle resistenze a modificare assetti proprietari, modelli produttivi, costi alla luce del sole (fiscali, logistici, ecc.) e costi nascosti (la tassa esatta dalle mafie).

Ecco apparire, in tutta evidenza, la ragione “strutturale” dell’irruzione dei braccianti extracomunitari, soprattutto, ma non solo, africani, nelle nostre campagne. Parlare di “razzismo” allora rischia di diventare equivoco: piuttosto, si dovrebbe dire, con la necessaria franchezza, che una nuova leva di braccianti agricoli molto deboli sul piano contrattuale, perché privi di reti sociali e familiari di solidarietà, di conoscenza dei propri diritti e addirittura della lingua, è diventata a un certo punto l’elemento sul quale un sistema restìo al cambiamento e all’innovazione (parte a sua volta di una più generale resistenza tutta italiana all’innovazione) ha trovato possibile esercitare pressione.

Questo è plasticamente rappresentato dalla scelta delle tendopoli, dove anche un immigrato regolare e tutt’altro che sprovveduto, anzi più consapevole della media, come Sacko Soumalya abitava; le tendopoli edificate dalla Protezione civile e dalle prefetture, intendiamo, non le baraccopoli spontanee o i casolari abbandonati dove probabilmente alloggia un’altra parte, non trascurabile, di questi braccianti: quelle tendopoli, quindi, che sono stare una scelta precisa di intervento, che sottintende tutta un’altra serie di scelte e valutazioni non dichiarate, ma precise, quali la cronica precarietà e provvisorietà dei lavoratori agricoli extracomunitari, la loro ghettizzazione in luoghi separati, la sproporzione di uomini giovani e soli, in un contesto in cui le bassissime retribuzioni non permetterebbero né abitazioni migliori, né integrazione sociale attraverso la costituzione di una famiglia.

Senza negare gli sforzi di legalità e trasparenza che in questi anni si sono fatti da parte di enti locali, prefetture, regioni, e non ultime le associazioni d coltivatori, l’innegabile presenza di fenomeni di illegalità mafiosa e paramafiosa (tipicamente italiani, ma che possono istigare fenomeni imitativi da parte degli immigrati, secondo la regola che laddove non avviene un’integrazione positiva ne avviene per forza una negativa, con l’adesione agli esempi più deteriori della società ospitante) pure aggiunge un problema in più, ma è pur sempre quello della necessità di innovare, razionalizzare e modernizzare l’agricoltura meridionale che appare davvero cruciale.

I giovani italiani del Sud, calabresi e non solo, che in questi anni si sono avviati sulla strada dell’emigrazione dalle regioni meridionali, ripercorrendo, con un alto livello di scolarizzazione, le orme dei loro nonni, che furono braccianti, rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia: risorse umane nate su queste terre, in fuga da condizioni di offerta di lavoro deludenti grazie al sostegno familiare, che funge da retroterra e presta i soldi per partire, e risorse umane sovente di alto livello potenziale (buona parte dei giovani braccianti africani “invisibili” hanno livelli di istruzione e di competenza insospettati e non messi a profitto) sprecate e umiliate in tende e baracche. In questo massacro di futuro, di speranze, di giovinezza, le rigidità del sistema, le resistenze conservatrici, il bisogno di buon governo e di innovazione.

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