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L’agricoltura deve attrarre giovani: necessario puntare sulla qualità

L’agricoltura è nel nostro futuro. Dobbiamo ricordarlo e ricordarcelo, perché per decenni l’agricoltura è stata il simbolo del passato, nel discorso pubblico italiano. Fatica, miseria, questa è la memoria del “passato contadino” di milioni di famiglie italiane.  Non è una memoria fallace, e non si può negare che dai tempi più antichi, il possesso della terra è stato il pilastro di un ordine sociale ingiusto, che prevedeva la fatica di molti per il privilegio di pochi.

Quello che è importante capire, è che quando ci sono state le condizioni per portare nelle campagne un ordine più giusto, si erano create, praticamente in contemporanea, le premesse per l’industrializzazione. Se la riforma agraria del 1950 è un capitolo dimenticato nella coscienza nazionale, che i giovani non conoscono ma pure gli anziani non ricordano, è perché venne rapidamente superata dall’impetuosa modernizzazione del sistema produttivo: attesa per secoli, era arrivata tardi. Eppure quando la riforma di De Gasperi va a toccare per la prima volta la proprietà delle terre nelle campagne, avviene una vera e propria rivoluzione: qualcosa che non si era potuto fare prima dell’Unità d’Italia, nei piccoli regni feudali della penisola, e neppure dopo, per quello che gli storici definiscono il patto tra casa Savoia e grande proprietà agraria, soprattutto meridionale, che offrì la propria fedeltà al nuovo Stato secondo il motto “cambiare tutto per non cambiare niente”.

Solo con la Repubblica, si può dire, ci furono le condizioni politiche per la riforma: che De Gasperi intese come sviluppo della piccola proprietà contadina, che fosse poi uno zoccolo duro di consenso per i partiti moderati, contro allo spettro di una socializzazione, la paura del comunismo. “Vi faremo proprietari, non proletari” è il fortunato slogan democristiano di allora. L’agricoltura italiana è ancora figlia dell’anno 1950: che produsse un’agricoltura molto parcellizzata, con tantissime piccole proprietà, basate sul sostentamento familiare, oltre 100mila famiglie ricevettero lotti di 6-8 ettari in media.

Questa nuova piccola proprietà diffusa, con una pragmatica commistione anche con le proposte riformiste della sinistra, funzionò bene al Nord, dove le cooperative, quelle “rosse” e quelle “bianche”, unirono piccoli proprietari in soggetti economici più forti, su base paritaria, e dove le infrastrutture pubbliche, strade, irrigazione, erano più disponibili; meno bene al Sud, dove le carenze strutturali rendevano più dura la vita dei nuovi proprietari, e il movimento cooperativo non aveva la medesima spinta. Ma, soprattutto, gli italiani cominciarono quasi immediatamente ad abbandonare quelle campagne che proprio allora, secondo le intenzioni, avrebbero dovuto diventare più accoglienti e dare finalmente il pane a tutti. E questo perché, improvvisamente, il pane non bastava più: cioè non bastava più una vita legata alla terra, alle tradizioni, al ritmo dei raccolti e delle stagioni. Le luci della città non promettevano soltanto un lavoro meno duro, salari mensili sicuri, ma anche una vita diversa.

Gli studi sociologici mettono in evidenza il ruolo delle giovani donne nello spingere i mariti a cercare lavoro in fabbrica: le nuore delle famiglie contadine, da sempre sottoposte a una gerarchia familiare che le vede al servizio dell’intera famiglia del marito, vedono nell’appartamento popolare in città la liberazione dall’oppressione familiare, dal bucato nei lavatoi, dalle imposizioni dei vecchi: anche di queste forze silenziose è fatta una migrazione di massa. Ha un bel cantare Celentano che in via Gluck, all’estrema periferia milanese, non c’è più erba: l’aria della città rende liberi, decine di migliaia di giovani coppie, di donne che raggiungono finalmente nella nuova “famiglia nucleare” un rapporto più paritario con il marito: è la base della rivoluzione sessuale e femminista dei decenni successivi.

Questo processo gigantesco di trasformazione, liberazione, modernizzazione, che ha fatto il nostro Paese quello che è oggi, ha indubbi risultati positivi, ma lascia anche dei prezzi da pagare. Uno dei più costosi è il prezzo, immateriale ma molto concreto, della perdita di rispettabilità sociale dell’agricoltura: chi è rimasto sulla terra è un perdente, uno che ha perso il treno. Il passato è sempre contadino, quindi arcaico e povero; il futuro sempre industriale (e poi, “postindustriale”). Si direbbe che agricoltura e benessere, agricoltura e modernità non possano andare assieme.

Veniamo all’oggi. L’agricoltura italiana è segnata tuttora da due fenomeni che sono direttamente l’esito delle scelte del 1950: una questione di forza produttiva, con proprietà troppo frazionate, aziende piccole e minime, magari confinate nella produzione per autoconsumo familiare, e una questione generazionale: troppi anziani, che segnalano il ruolo marginale del “pezzo di terra”, rimasto quasi come residuo di un mondo che fu. Occorre allora lanciare con forza un nuovo messaggio: l’agricoltura può, deve essere una parte di un Paese moderno, tecnologicamente avanzato, non c’è alcuna ragione perché essa venga identificata come un malato incurabile. In questi anni, le associazioni dei coltivatori hanno fatto del loro meglio per far passare questo messaggio.

Le nuove tecnologie offrono speranza: con Internet, nessun piccolo centro è isolato dal mondo; con lo sviluppo delle colture Dop la tipica piccola azienda italiana può passare dal sostentamento familiare di tipo antico alla produzione di prodotti esportabili in tutto il mondo di alto valore aggiunto. La crescita dei laureati in scienze agrarie è un indizio importante: in un trend nazionale che addirittura vede diminuire le iscrizioni universitarie, le facoltà di agraria sono passate da 933 matricole nel 2004 a 2707 nel 2014, un incremento notevolissimo in termini percentuali.

Un’agricoltura fatta di giovani imprenditori, istruiti e connessi col mondo, sostenuta da una platea di tecnici agronomi e veterinari, biologi e consulenti ambientali, è quello che vogliamo e speriamo. Si tratta, però, di numeri ancora modesti: anche se in questi anni si è diffuso, nel mondo dell’agricoltura, un senso di ottimismo e di nuovo orgoglio, perché proprio negli anni della crisi occupazionale si è visto che l’agricoltura manteneva e a volte aumentava i suoi occupati; infatti nel 2016 l’agricoltura secondo il Crea (il consiglio per la ricerca e l’analisi dell’economia agraria), l’agricoltura italiana ha avuto la maggior crescita in valore aggiunto, 4,6% contro il 3% dell’industria. Ma se dai dati relativi passiamo a quelli assoluti, dobbiamo comunque ricordare che l’agricoltura è soltanto il 2,3% del PIL nazionale: e conoscendo le dinamiche dei Paesi avanzati, sarebbe un equivoco credere in un massiccio “ritorno alla terra”.

Nonostante l’ottimismo, infatti, i dati della Commissione Europea per il 2018 non sono incoraggianti: gli agricoltori italiani under 35 sono in effetti ancora in diminuzione (5,1% nel 2003, 4,5% nel 2013, per 45.680 giovani in cifra assoluta attivi nel 2013) e la forza lavoro giovanile in agricoltura in Europa è sotto al 20% (N.B. si impiegano qui dati semplificati, sulla scorta di una sintesi pubblicata dal prof. Ermanno Comegna per Agrarian Sciences).

Questo vuol dire che il pur notevole sforzo per sostenere il ricambio generazionale in agricoltura, effettuato con fondi pubblici, ha, al massimo, rallentato un processo di diminuzione numerica che ancora non ha raggiunto il suo apice: la Corte dei Conti europea ha messo nel mirino queste misure, indicando che di fatto i giovani agricoltori europei under 44 sono oggi solo 2,3 milioni, in diminuzione. Per questo esistono diverse ragioni: intanto, la necessità di un piano di infrastrutture per il trasporto regionale e locale che renda vivere nelle comunità rurali attraente per le giovani coppie; poi l’accesso ai capitali di investimento, la semplificazione dell’accesso ai fondi di sviluppo rurale, ancora oggi sovente male impiegati, e senza dubbio l’aumento delle dimensioni delle aziende agricole, oggi troppo piccole, ciò che dovrebbe vedere la diminuzione, fisiologica, del numero dei piccoli proprietari tuttofare, ma aprire lo spazio per più tecnici e consulenti.

Sappiamo, sempre dai dati europei e dalle loro proiezioni, che i cambiamenti tecnologici e finanziari porteranno ad una ulteriore diminuzione degli occupati in agricoltura in tutta Europa entro il 2030. Quello che si deve progettare è quindi una crescita qualitativa, di benessere e prestigio del lavoro in agricoltura, che sappia attrarre giovani imprenditori e intelligenze, e rinunci alla compressione dei costi salariali, che ha nell’impiego di braccianti extracomunitari sottopagati il suo estremo patologico. Meglio meno ma meglio, insomma.

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