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Costo del lavoro ed equa imposizione

Ridurre il costo del lavoro. Cioè rendere più conveniente, per le aziende, il contratto a tempo indeterminato. E’ il consumato diktat che l’Unione europea da tempo suggerisce all’Italia. Ed è, in fondo, un’aspirazione insita anche nell’anima del Jobs act, causa il fatto che da noi il peso della contribuzione incide più che nella maggior parte dei Paesi dell’Ocse. A ciò si aggiunge il fatto che l’elevato costo del lavoro rappresenta un freno agli investimenti esteri nel nostro Paese. Insomma, l’esigenza di tagliare il costo del lavoro, avvertita da tutti gli imprenditori oberati dalle tasse, è da sottoscrivere pienamente.

Tuttavia non si può trascurare il rovescio della medaglia. Innanzitutto per l’Erario, cioè per noi tutti. Interventi di “sforbiciata” del costo della lavoro generano oneri non trascurabili per la collettività. Secondo stime attendibili, per ogni punto di riduzione il governo dovrà reperire circa 300 milioni di euro.

Come uscirne fuori?

La questione del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo del lavoro e il netto in busta paga “alleggerito” dei contributi, si ripresenta puntualmente ad ogni vigilia del varo del Documento di economia e finanza (Def). Dieci anni fa – Finanziaria 2007 – l’intervento fu firmato da Cesare Damiano, allora ministro del Lavoro. E non andò bene. Nel 2015 s’è optato per la decontribuzione piena: il numero di assunzioni a tempo indeterminato è schizzato subito in alto, salvo poi un’amara caduta, parallela alla riduzione dell’alleggerimento fiscale. Così da gennaio sono attivi soltanto sgravi mirati: per coloro che assumono studenti dopo l’alternanza, nonché giovani e disoccupati nel Mezzogiorno, con fondi dell’Unione europea.

Altri tentativi “strutturali” andati in direzione opposta, cioè a vantaggio dei lavoratori, non hanno avuto miglior sorte: gli ormai celebri 80 euro finiti nelle buste paga dei dipendenti (con redditi tra gli ottomila e i 26 mila euro), fiore all’occhiello dell’era Renzi, sembrano essere alle battute finali per l’enorme costo e per aver disatteso le aspettative (e, nel caso di una loro estinzione, le promesse della politica).

Come procedere, allora?

Bruxelles propone una ricetta unica e drastica: alleggerire le tasse sulla produttività e trasferirle sui consumi. Tradotto: compensare l’alleggerimento dei contributi attraverso aumenti dell’Iva. Una panacea? Non proprio. Chi ha scelto obtorto collo tale strada, vedi la Grecia, è andato incontro alla rovina. E poi, quale toccasana sarebbe riservato ai consumi già in asfissia?

Più articolati i progetti sul fronte interno.

Una prima ipotesi, quella che più veleggia in questi giorni, riguarda una possibile riduzione strutturale tra i tre e i cinque punti di contributi a favore dei neoassunti con contratto a tempo indeterminato, quello “a tutele crescenti” introdotto dal Jobs act. L’intervento costerebbe tra 1 e 1,5 miliardi. Riteniamo, però, che si tratterebbe di un atto esile, quindi con risultati certamente non esaltanti.

Un’altra strada è quella di un’azione più coraggiosa: taglio al costo di tutto il lavoro stabile, vecchi e nuovi assunti, cioè l’intera platea dei dieci milioni e mezzo di lavoratori dipendenti. Il peso per l’Erario sarebbe molto più rilevante ed emergerebbe il problema della coperture. Di questi tempi – salvo controbilanciare con l’aumento dell’Iva – sappiamo che di soldi in cassa ce ne sono pochi.

Un’altra proposta è più complessa: la dote contributiva “a vita”, assegnata al momento della prima assunzione e trasferibile nel caso di cambiamento del posto di lavoro. Ciò favorirebbe esclusivamente le nuove generazioni, del resto le più penalizzate dall’attuale situazione del lavoro.

Va poi registrata l’idea di due professori della Luiss, Fabio Marchetti e Luciano Monti: una pressione fiscale differenziata per età, oltre che per reddito. Cioè far pagare meno tasse ai giovani e più agli anziani. Senza oneri per lo Stato.

A fronte di proposte certamente intelligenti e variegate, rimangono però difficoltà comuni.

La prima è nella definizione di un equilibrio intergenerazionale. Il calo generalizzato del cuneo esteso a tutti favorirebbe i lavoratori con esperienza rispetto ai giovani. Ma puntare unicamente sulle nuove generazioni potrebbe alimentare ulteriori squilibri in un mercato del lavoro già denso di problematicità.

La seconda è nel rapporto distributivo di vantaggi tra datore di lavoro e lavoratore. Alleggerire il primo dovrebbe favorire le assunzioni, ma recenti esperienze dimostrano che non sempre è così. Beneficiare il secondo potrebbe ridursi ad alimentare unicamente i consumi.

C’è poi l’opzione di trasferire parte della contribuzione direttamente nella busta paga del lavoratore. Sicuramente, anche in questo caso, potrebbero trarne vantaggio i consumi (con l’aumento del potere d’acquisto), ma controbilanciati dalla crescita delle tasse (causa il “guadagno extra”) e soprattutto dall’impoverimento della futura pensione.

La vera questione è che – al di là di soluzioni affidate alla creatività individuale – ogni beneficio per una categoria andrà sempre a discapito di un’altra. In una sorta di logica da vasi comunicanti. O, se si preferisce, da coperta corta.

Una reale e sostenuta crescita allevierebbe certamente il problema. Ma, stante l’attuale contesto di recessione e di crescente emarginazione, ci auguriamo che almeno questa volta si sotterrino le tentazioni delle mance elettorali a vantaggio di alcune categorie, per affidarsi invece a quei nobili principi di uniformità dell’imposizione, fondamento del più generale valore di eguaglianza richiamato innanzitutto dalla nostra Costituzione.

 

(Domenico Mamone)

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