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Cosa chiediamo a Draghi

C’è grande attesa per quando il neopremier Draghi – Rousseau o non Rousseau, non dovrebbero esserci sorprese sulla designazione – scoprirà le carte. Sui suoi progetti finora è trapelato poco, per lo più dalle delegazioni che lo hanno incontrato. Tuttavia non è difficile ricomporre le tessere del mosaico. In sostanza, quali saranno le priorità per il governo dell’ex presidente della Bce? Si concilieranno con le istanze di noi imprenditori?

Innanzitutto c’è la necessità di rivalutare due elementi, peculiari del “fare” e decisamente abbandonati dalla politica tradizionale: il dinamismo e il pragmatismo. Due valori utili anche per non perdere ulteriore tempo. Si spera che l’immancabile “mal di pancia” da parte di qualche formazione politica sui singoli provvedimenti non infici ritmi e concretezza dell’esecutivo. Del resto la politica tradizionale non può certo forzare la mano: per troppo tempo, salvo eccezioni, si è adagiata sui totem ideologici e sul chiacchiericcio. L’arrivo di Draghi è l’esito proprio di questo “vuoto decisionale”, come hanno evidenziato in molti – ad esempio Massimo Cacciari – da parte di una classe dirigente caratterizzata principalmente dall’impoverimento culturale e da una diffusa inettitudine.

Quali sono, dunque, “le urgenze” che ci aspettiamo dal nuovo esecutivo?

La prima, in assoluto, è l’implementazione del piano vaccinale. Anche perché da questo dipende la lotta alle principali emergenze: quella sanitaria e quella economica. Soltanto vaccinando più persone possibile si consentirà la ripresa dell’economia attraverso il ripristino della normalità, l’allentamento dei divieti, il rilancio della mobilità, la riapertura delle attività commerciali. È ciò che chiedono tutti gli italiani, imprese in prima fila. Anche perché il mondo imprenditoriale, che produce ricchezza e che costituisce la spina dorsale del Paese, è quello che sta pagando maggiormente la crisi e che si sente più trascurato dalla politica.

La prospettiva di produrre vaccini attraverso imprese italiane su licenza dei colossi farmaceutici o di aprire nuovi fronti di acquisto (come stanno facendo Lombardia e Veneto), anche tramite l’Unione europea, sono strade da privilegiare.

Un secondo punto già emerso – e che condividiamo – riguarda la riduzione della spesa corrente, del becero assistenzialismo, della politica dei sussidi e di alcuni contributi a fondo perduto rispetto agli investimenti, in particolare sulle infrastrutture: orientamento in linea con i diktat europei, ad esempio quelli legati alla “transizione ecologica”. Quindi addio bonus, agevolazioni e spese improduttive, non solo quelle deliberate nel corso dell’emergenza Covid, ma soprattutto quelle incardinate nei conti pubblici da decenni.

Altro nodo annoso è la richiesta del taglio della burocrazia. È la sfida forse più difficile in un Paese che ha nel dna le prolissità e le lungaggini. A pagarle sono soprattutto le imprese. Collegate a questo tema ci sono tre riforme di cui si parla da tempo e che da sempre fanno parte delle richieste di noi imprenditori: la pubblica amministrazione, la giustizia e il fisco. Quando non funzionano, costituiscono freni anche per gli investimenti internazionali.

La formazione e la scuola rappresentano un altro comparto di cui ci occupiamo spesso, ritenendolo strategico per “la qualità” del fare impresa e per le competenze. Draghi ha già indicato due necessità: quella di affrontare il problema del precariato (le famose e famigerate “cattedre vuote”), quindi il prossimo ministro dell’Istruzione dovrà operare affinché a settembre l’attività ricominci con tutte le cattedre già assegnate; e quella di tenere attiva la didattica fino al termine di giugno inoltrato per recuperare le tante assenze per le quarantene.

C’è poi il capitolo dell’impostazione della “macchina” sul piano internazionale. Oltre alla scontata rotaia europeista (più Giorgetti che Borghi&Bagnai nella Lega), da registrare il riavvicinamento agli Stati Uniti rispetto agli entusiasmi filocinesi delle ultime stagioni. Draghi avrebbe parlato anche di “bilancio comune europeo” come prospettiva futura.

La fiducia dei mercati, già emersa con la riduzione dello spread sui titoli di Stato, appare un buon viatico. L’Italia deve recuperare l’8,9 per cento di Pil perso nel 2020 (meno 6,8 per cento la media europea), ma anche porsi obiettivi di lungo termine grazie al “Recovery” che, in mano a Draghi, rassicura partner europei e mercati: per farlo deve recuperare vitalità, ottimismo e credibilità. Sfida dura, ma non impossibile.

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