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Gli spettri dell’Argentina

Il ricordo del crac del 2002 è ancora vivo. In particolare per quei 450mila risparmiatori italiani che videro tramutarsi sul momento i 14 miliardi di dollari di “tango bond” in carta straccia. Ci vollero 14 anni per un accordo siglato a New York tra gli stessi risparmiatori, rappresentati dalla Tfa (la Task Force Argentina di banche), e il Tesoro di Buenos Aires per riavere quei soldi con gli interessi.

Ora l’Argentina rischia l’ennesimo default, il terzo negli ultimi anni in un Paese con il 35,5 per cento della popolazione in povertà. E dove il coronavirus sta esasperando una situazione già drammatica prima della pandemia.

Il problema principale del Paese sudamericano è il debito pubblico da 323 miliardi, pari a circa il 69 per cento del Pil (elaborazione Ambasciata d’Italia su dati EIU marzo 2020 e IMF ottobre 2019). Frutto soprattutto di spese folli negli ultimi decenni e di tanta corruzione. Non manca chi, nel nostro Paese, individua analogie con una nazione che, per quanto fisicamente lontana e con numerose differenze nel tessuto economico, ha circa la metà dei suoi 45 milioni di abitanti di origine italiana. E dimostra come un debito pubblico eccessivo costituisca una ferita che potrebbe diventare letale.

I tentativi di ristrutturare questa zavorra, nel Paese sudamericano, sono finora falliti. Già lo scorso anno molti osservatori profetizzavano un nuovo default per l’Argentina. A febbraio scorso il Fondo Monetario Internazionale ha parlato di debito “non più sostenibile” in quanto l’avanzo primario necessario per ridurre il debito pubblico non sarebbe “economicamente o politicamente fattibile”. Il nodo sono circa 100 miliardi di dollari in prestiti e obbligazioni (ad alto rendimento per i cinque grandi fondi che ne sono proprietari) a rischio inadempienza.

Negli ultimi due anni, il Pil argentino è crollato del 5,2 per cento e l’inflazione è di nuovo schizzata sopra al 50 per cento, aggiungendo benzina al fuoco. Così il prossimo 22 maggio sarà il giorno dell’esame: il governo dovrebbe onorare i debiti contratti con la vendita dei titoli di Stato. Il debito per circa la metà è in dollari, di proprietà e valuta estera (dollari). L’altra metà si divide tra i 57 miliardi di dollari di debito proprio con il Fondo Monetario Internazionale e i 43 miliardi di dollari di titoli locali in pesos.

Il ministro delle Finanze, Martin Guzman, membro di punta del governo guidato dal peronista moderato Alberto Fernández (eletto nell’ottobre del 2019 e succeduto a Mauricio Macri), ha richiesto ai creditori internazionali una moratoria di tre anni per la sospensione del pagamento degli interessi, cui si aggiunge un taglio della cedola al 2,33 per cento che, in termini di minori interessi pagati, equivarrebbe ad risparmio di 37,9 miliardi. In sostanza l’Argentina ha chiesto di cambiare le condizioni del prestito, restituendo una cifra minore in un tempo più lungo. Offerta respinta al mittente da tre dei cinque gruppi di investitori. Quindi la prospettiva del fallimento alla maggior parte degli analisti appare comunque inevitabile.

E’ una storia drammatica di un Paese che non riesce a risollevarsi. Ed è uno spettro anche per una nazione storicamente vicina all’Argentina come la nostra, dove il debito pubblico si avvia a raggiungere il 160 per cento del Pil, più del doppio – percentualmente – rispetto a quello argentino che nell’ultimo anno è stato anche ridotto di una ventina di punti. 

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