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La crisi quale occasione di rigenerazione morale

Il futuro dell’Italia è quanto mai legato all’Europa. Soprattutto economicamente. Ma anche alla capacità del nostro Paese di saper investire bene le ingenti risorse economiche comunitarie che saranno destinate a noi italiani.

La sfida centrale è quella di salvaguardare dall’inesorabile declino quel ruolo di paese leader nella produzione manifatturiera, nonché nell’agricoltura di qualità, nella ricerca, nella cultura, nel design, nel turismo. Non sarà sufficiente, però, mantenere unicamente le posizioni di mercato; servirà soprattutto incrementare la produttività e apportare innovazione per essere attrezzati di fronte ai nuovi confronti tra sistemi-Paese sempre più concorrenziali e globali.

E’ necessario adeguare, attraverso urgenti riforme, anche altri settori-chiave della nostra società, come la sanità, la scuola, l’università, la formazione, la giustizia. Non vanno, inoltre, dimenticati i guai ambientali, con l’esigenza di passare dalla cultura della costruzione a quella della manutenzione e del riutilizzo, la cosiddetta “economia circolare”. Non minori i problemi demografici, con interi lembi di Paese avviati alla desertificazione. Insomma, una lista di indicazioni che si rinnova invano da ormai troppi anni, restando purtroppo chiusa nel recinto delle buone intenzioni.

Nel frattempo, da qualche giorno, è ufficialmente partito il complesso negoziato sul Recovery fund. Il fondo per la ripresa dell’Unione sarà costituito da una miscela di sovvenzioni, crediti agevolati e prestiti di lunga durata. In totale ci dovrebbero essere 750 miliardi di euro nel piatto, con l’Italia che avrà un ruolo primario nella destinazione delle risorse: la proposta è di 172,7 miliardi di euro, di cui 81,8 a fondo perduto. L’obiettivo è chiudere entro luglio, anche se i fondi non arriveranno probabilmente prima del 2021. Per la fase intermedia ci dovrebbero essere 11,5 miliardi, da rendere disponibili già quest’anno.

Gli ostacoli nella trattativa, come sappiamo, sono tantissimi: alcuni agguerriti Paesi del Nord – Austria, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia – non vogliono la condivisione dei debiti e le sovvenzioni a fondo perduto. Altri – Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria (il cosiddetto “gruppo di Visegrad”) – mettono in discussione il sistema di distribuzione, basato sulle percentuali dei tassi di disoccupazione. Servirà, allora, un ulteriore compromesso: l’appuntamento per realizzarlo è incarnato dall’ennesimo vertice europeo, a metà luglio, con la Germania presidente di turno dell’Unione europea e la cancelliera tedesca Angela Merkel intenzionata ad un’intesa veloce.

Certo, per quanto ci riguarda, gli enormi nodi non mancano. Costituiti principalmente dalla nostra atavica incapacità di buona progettazione e di spesa proficua a beneficio di tutta la collettività. Come avviene, viceversa, proprio nei Paesi del Nord Europa.

Emblematica l’esperienza dei fondi strutturali comunitari, di cui l’Italia è sulla carta il secondo beneficiario: secondo gli infodata del Sole 24 Ore, la capacità complessiva di assorbimento di tali risorse dell’attuale programmazione è ferma al 28,53 per cento (fine 2019), un dato che si conferma tra i più bassi dell’intera Unione. Oltre alla classica forbice tra Nord e Mezzogiorno, agli ultimi posti si piazzano anche tre programmi gestiti da ministeri: il Pon Imprese e competitività (Mise), che a fine 2019 aveva speso un quinto dei 3,06 miliardi disponibili; il Pon Inclusione (ministero del Lavoro) con il 19,11 per cento di spesa e, ultimo, il Pon Legalità, gestito dal ministero dell’Interno, fermo al 14,7 per cento di spesa certificata e ancora più di mezzo miliardo di spesa da realizzare. Non dimentichiamo che proprio i Paesi di Visegrad, molto efficienti nella progettazione e nella spesa delle risorse comunitarie, arrivano a percentuali superiori al 90 per cento.

Un secondo aspetto è quello della destinazione delle risorse: il rischio concreto è che la gran parte finisca ai “soliti noti”, lasciando fuori quel tessuto imprenditoriale italiano particolarmente parcellizzato ma vitale, costituito nella stragrande maggioranza da piccole e medie imprese, con buona quota di quelle familiari. Gli Stati generali a Villa Pamphili hanno seminato più di qualche timore in tal senso, con Confindustria tornata a fare la voce grossa. Insomma, in una sorta di setaccio, i fondi arriverebbero soprattutto ai soliti grandi gruppi, lasciando fuori non solo le piccole realtà imprenditoriali, ma anche singoli professionisti, lavoratori autonomi, artigiani, coltivatori, cittadini comuni.

In sostanza, sono le stesse preoccupazioni che aleggiano intorno al Mes, il cosiddetto “fondo salva-Stati”, benché variato nella sostanza. Oltre a suscitare apprensioni per le condizioni non chiare a fronte comunque di ulteriore indebitamento che pagheranno le generazioni future (36 miliardi di euro), accende interrogativi sulla destinazione finale, con la sanità privata che potrebbe fare la parte del leone, com’è avvenuto negli ultimi anni in molte regioni italiane. Le conseguenze di tali “privatizzazioni” dei posti letto, di cui spesso s’è dovuta occupare la magistratura, le abbiamo viste chiaramente nei mesi scorsi, nelle fasi più acute della pandemia da Covid-19, con i privati che investono molto nella ricerca ma pochissimo nell’emergenza.

Non vanno, poi, sottaciuti i rischi dell’infiltrazione della criminalità organizzata nell’intercettazione delle risorse, ad iniziare dal presidio nei cantieri. Il buon lavoro fatto da Cantone negli anni scorso andrà replicato.

Insomma, un’eventuale pioggia di soldi, se mal gestita, rischierebbe di accentuare problemi atavici, differenze di trattamento, ingiustizie sociali. Ad amministrarla, in fondo, ci sarebbe quello stesso Stato che non brilla certo per una pubblica amministrazione e per una magistratura efficienti. Permarrebbe quella concezione della risorsa pubblica quale strumento per accrescere consenso, investimenti senza una strategia d’insieme. E mancherebbe quella capacità di “visione” che vada oltre i confini dell’ordinaria amministrazione e della permanente e dannosa mediazione degli interessi settoriali.

Il tutto s’inserisce, purtroppo, in una fase storica ancora piena di incertezze, con una pandemia che – per quanto mitigata – costituisce ancora una spada di Damocle per la nostra quotidianità e per tensioni sociali rese crescenti dalla crisi, con il rischio di un autunno “caldo” all’orizzonte. Non va trascurato lo scontro in atto tra governo centrale e Regioni, esploso in occasione dei provvedimenti per la gestione dell’emergenza coronavirus, con ricadute anche nei dibattiti per le leadership nelle formazioni politiche (si pensi al ruolo crescente di Zaia nella Lega o di Bonaccini nel Pd).

Tuttavia, a fronte del concreto pessimismo, non dobbiamo dimenticare che l’etimologia della parola crisi deriva dal greco κρίσις che significa “valutare”. Insomma, al di là dell’accezione negativa ormai comunemente assunta, questo termine ha una radice positiva: una fase di crisi, cioè di valutazione e di riflessione, può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento e per una rinascita.

Ma, questo il punto, al di là dei soldi c’è bisogno di far tesoro degli aspetti migliori emersi in queste drammatiche settimane di sofferenza. E’ quanto ha ricordato, ad esempio, Papa Francesco sabato scorso in Sala Clementina, incontrando, tra l’altro, una delegazione di operatori sanitari della Lombardia e dell’ospedale “Spallanzani” di Roma.

“Cari medici e infermieri, il mondo ha potuto vedere quanto bene avete fatto in una situazione di grande prova – ha detto il Papa. “Anche se esausti, avete continuato a impegnarvi con professionalità e abnegazione. Questo genera speranza. Adesso, è il momento di fare tesoro di tutta questa energia positiva che è stata investita. È una ricchezza che in parte, certamente, è andata ‘a fondo perduto’, nel dramma dell’emergenza; ma in buona parte può e deve portare frutto per il presente e il futuro della società italiana”.

Ecco, come ha esortato il Pontefice, si tratta di ripartire dalle innumerevoli testimonianze di seria dedizione, che hanno lasciato un’impronta indelebile nelle coscienze e nel tessuto della società. Hanno insegnato quanto ci sia bisogno di vicinanza, di cura, di sacrificio per alimentare la convivenza civile. E’ illusorio fare dell’individualismo il principio-guida della società. “Ma stiamo attenti perché, appena passata l’emergenza, è facile scivolare, è facile ricadere in questa illusione – ha ammonito Papa Francesco.

Ecco perché le risorse economiche da sole non basteranno. Occorre una rigenerazione reale, innanzitutto morale, che parta dal basso. E’ necessaria una profonda presa di coscienza per mettere in campo iniziative non finalizzate al facile consenso elettorale del momento, ma progetti fruttuosi che aiutino nel lungo termine, che sostengano le famiglie attraverso la creazione di posti di lavoro, che contribuiscano alla transizione verde per salvaguardare l’ambiente, che garantiscano una concreta spinta all’innovazione e al digitale, che favoriscano le aziende e i lavoratori più colpiti dalla crisi. La questione di base è la solita: passare dalle buone intenzioni ai fatti.

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