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La banalizzazione della mafia sullo schermo

Domenico Mamone

Lo scorso 13 settembre è ripartita su Canale 5, in prima serata, la serie televisiva “Squadra mobile”: la novità più evidente è l’aggiunta del sottotitolo “Operazione Mafia Capitale”. Il giorno seguente su Raitre, sempre in prima serata, sono stati trasmessi i primi due episodi della docufiction “I mille giorni di Mafia Capitale”. Il romanzo e poi film “Suburra” – titolo che richiama il quartiere malfamato dell’antica Roma – è ora anche serie televisiva in dieci episodi. Lo vedremo presto in tv.

Insomma, la Capitale associata alla mafia e al degrado morale, assurta agli onori della cronaca internazionale per la nota inchiesta sulle relazioni torbide e sui business illeciti, costituisce ormai, paradossalmente, un claim di successo. I lavori cinematografici da grande e piccolo schermo traggono linfa pregiata da questa realtà apparentemente immodificabile e senza speranza, condita da stereotipi e slang di sottocultura rionale. Il guano sociale “corruzione & criminalità” di Roma sta strappando la non invidiabile scena ad altre realtà del Mezzogiorno, in particolare alla Sicilia. Le fortunate stagioni di “Romanzo criminale”, che si ispirava alla Banda della Magliana, hanno dato il via: l’inflazionato intreccio tra istituzioni, mondo economico e quella piccola criminalità specializzata nel cosiddetto “lavoro sporco” di usura, rapine e ricatti è garanzia di audience. I protagonisti della cronaca reale si trasformano in personaggi efficaci e di successo per libri, sceneggiature cinematografiche, copioni teatrali. Con “Mafia Capitale”, benché il primo grado di giudizio nei tribunali (e non nei film) la abbia spogliata del packaging mafioso, si è giunti tuttavia all’apoteosi.

Certo, in fondo sono decenni che il cinema saccheggia le cronache di mafia. La strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, il sindacalista corleonese Placido Rizzotto rapito e ucciso nel 1948, l’epopea del bandito Salvatore Giuliano trovato cadavere nel 1950 sono vicende non oscurate dal passare del tempo grazie anche all’attività – molto a posteriori – di sceneggiatori e registi. E almeno una decina di pellicole negli anni Sessanta (tra cui il capolavoro di Lattuada “Mafioso” del 1962 con l’eccellente Alberto Sordi), una trentina negli anni Settanta (da “Il Padrino” di Coppola a “Lucky Luciano” di Rosi, da “Il sasso in bocca” di Ferrara a “Camorra” e “Corleone” di Squitieri) ed almeno un altro centinaio di film a seguire – molti bellissimi – hanno trattato vicende di mafia: come dimenticare “Scarface” o “C’era una volta in America”, “Cento giorni a Palermo” o “Pizza connection”, “L’onore dei Prizzi” o “Il camorrista”, o ancora “Gli intoccabili”, “Il siciliano”, “Mery per sempre”, “Dimenticare Palermo”, “I cento passi” e tanti altri?

Per un vezzo tutto italico, con radici neorealiste, sottolineare gli abomini di casa nostra (e di Cosa Nostra) – seppur con matite differenti (dall’alta cinematografia ai luoghi comuni, dai film-inchiesta alle storie romanzate) – è un esercizio che in termini d’interesse ha sempre pagato. Mafia e cinema condividono soprattutto l’azione, ma anche le debolezze umane, i sentimenti, i drammi. Un’osmosi che è diventata un genere a sé. Quando l’11 marzo 1984 andò in onda su Raiuno la prima puntata de “La Piovra”, nessuno poteva immaginare che quella serie televisiva conquistasse invidiabili primati: tenere incollati alla tv fino a quindici milioni di italiani e diventare un successo planetario, grazie al fatto che le vicende del commissario Cattani sono state esportate in ben ottanta nazioni, fenomeno senza precedenti.

I successi commerciali di opere come “La Piovra” – o di serie televisive straniere come quella della famiglia italo-americana dei Soprano – opera vincitrice dei maggiori premi e collocata al vertice delle produzioni di ogni tempo da tante qualificate riviste come Rolling Stone – accendono però qualche interrogativo morale: è davvero proficua questa costante associazione del nostro Paese con la mafia anche su un piano culturale? Se è vero che parlare della mafia senza compromessi è in fondo un modo per combatterla, per svelare e mortificare quell’omertà che contribuisce non poco ad alimentare la cultura mafiosa, è altrettanto vero che in una società dell’immagine come la nostra la promozione di quelle simbologie alla base dell’organizzazione mafiosa rischia non solo di normalizzare gli atteggiamenti più comuni dei boss – spesso riproposti in forma emulativa nella criminalità minore – ma persino di legittimarli e di rigenerarli.

Quando Mediaset mandò in onda la fiction “Il capo dei capi” sulla vita di Totò Riina, nel 2007, diversi analisti vi lessero “una pericolosa iconografia positiva della mafia”, come disse il pm Antonio Ingroia dopo aver verificato di persona la seduzione che Riina aveva riscosso tra gli studenti di Palermo. Lo stesso Andrea Camilleri, in un pezzo sul quotidiano “La Stampa”, ha scritto: “Ritengo che l’unica letteratura che tratti di mafia debba essere quella dei verbali di polizia e carabinieri e dei dispositivi di sentenze della magistratura. A parte i saggi degli studiosi”.

Nel fiume di pellicole sull’argomento, non va dimenticato che alcune, dribblando i filoni più comuni, hanno preferito affrontare il tema da angolature originali, come “Johnny Stecchino”, “Tano da morire” e il recente e intelligente “La mafia uccide solo d’estate” di Pif.

C’è però un altro aspetto della questione che da anni divide gli osservatori. In molti casi, tale dinamismo produttivo viene sbandierato con l’immancabile etichetta di “impegno civile”. E frequentemente, in virtù di ciò, ottiene patrocini istituzionali, finanziamenti statali, mondanità pronta a condire le presentazioni alla stampa. L’imperativo è parlare della mafia? Ecco allora che il fenomeno “antimafia”, oltre che vena creativa, diviene una sorta di certificazione di qualità. Non sono pochi i registi o gli autori specializzati nel settore. Ed i frame sui martiri di questa infinita lotta, dall’ottocentesco Joe Petrosino fino a Borsellino & Falcone, si moltiplicano, rischiando talvolta persino di alterare il messaggio lasciato da questi modelli con il loro impegno e il sacrificio di un’intera esistenza.

Andrea Minuz sul “Foglio” associa un po’ spietatamente l’antimafia ad “un business attorno a cui girano parecchi finanziamenti europei, assai prima che si riempisse di fiaccolate, catene umane, agende rosse, tessere di Libera, parenti delle vittime candidati alle elezioni, lenzuola bianche ai balconi, Sauvignon fatti con uva mafiosa e ‘miele della legalità’”.

Leonardo Sciascia in un pezzo del 10 gennaio 1987 sul “Corriere della Sera” – molto criticato – parlò di “alluvionata di retorica” proprio a proposito della cultura dell’antimafia.

Il problema principale però, a nostro parere, è sull’inflazione di proposte letterarie e cinematografiche, laddove la quantità spesso paga un alto prezzo alla qualità. Allora, anziché inseguire le seduzioni modaiole e becere della Mafia Capitale, non sarebbe più rivoluzionario trasmettere uno dei tanti esempi positivi che c’ha donato lo sport (soprattutto quello del passato)?

(Domenico Mamone)

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