Una nota del Centro Studi Unsic per amministratori e operatori.
- Prevenire: si può fare, si deve fare. Dopo la solidarietà e il dolore per le vittime del terremoto di Accumoli e Amatrice, ritorna il tema della prevenzione. Non della previsione dei terremoti, tema suggestivo ma oggi ancora materia più per ciarlatani che per scienziati, ma della prevenzione antisismica che consenta di reggere al terremoto. L’esempio sempre citato (giustamente) è quello del Giappone: dove terremoti della forza di quello di Amatrice o dell’Aquila sono abbastanza frequenti e non interrompono, quasi, la vita quotidiana (Amatrice e L’Aquila hanno sofferto una magnitudo di 6.0 e 6.3, mentre quando sentiamo di un disastro in Giappone, come quello di Fukushima del 2011, si tratta però di una magnitudo 9. Per capirci, il più devastante terremoto italiano, quello di Messina del 1908, non pare abbia superato il 7.2, anche se seguito da un caso mediterraneo di tsunami, o maremoto). Non vale l’argomento che l’Italia, con i suoi centri storici, ha un’edilizia più antica di quella giapponese, dove la tradizione era di case di legno, e ha permesso di passare in maniera estesa ad edifici moderni: non vale perché anche gli edifici antichi, di pietra o mattoni, possono essere messi in sicurezza. D’altra parte, l’esperienza italiana dimostra che edifici moderni cadono con frequenza inquietante, mettendo in discussione non la Storia, ma prassi e tecniche del giorno d’oggi. Mettere in sicurezza con successo gli edifici pubblici e privati, al netto di elementi imponderabili ed errori umani che sempre possono accadere, si può, e quindi si deve. Nel XXI° secolo i crolli diffusi non sono la normalità. Valga per tutti, il caso del comune di Norcia, dove c’è stato l’epicentro della terza scossa (5.3), e a meno di trenta chilometri da Accumoli, dove, per giudizio generale dei tecnici e degli esperti, gli interventi sul patrimonio edilizio stimolati dai sismi del 1979 e 1997 che avevano colpito duramente Norcia e l’Umbria hanno fatto sì che la città di San Benedetto abbia retto con danni modesti. In questo caso, si sono impiegati fondi per l’emergenza, e si può dare atto alla presidente dell’Umbria Catiuscia Marini, che rivendica la “buona ricostruzione”, che la Regione e i Comuni abbiano lavorato bene, e probabilmente meglio che in altre regioni (per un’idea generale, si può visitare il sito osservatorioricostruzione.regione.umbria.it ). Ma ogni privato cittadino può fare la sua parte, a tutela dell’incolumità propria, dei suoi beni, e della collettività, anche senza un programma di ricostruzione in corso (che vuol dire, anche senza dover ripartire dalle macerie).
- Criteri di intervento: miglioramenti relativi e soluzioni di lungo periodo. Non si alzino le mani dicendo che “in Italia non si può fare”. E’ questa la troppo facile conclusione, magari ispirata alle polemiche sull’antichità del patrimonio edilizio italiano, o sulla mancata istituzione di strumenti certo molto utili, come il fascicolo del caseggiato e la certificazione antisismica, oggi ancora allo stato di progetto nel nostro Paese. Certo, se fossero obbligatori sarebbe meglio: ma qualsiasi proprietario di un immobile, anche in assenza di obblighi di legge stringenti, può prendere per suo conto l’iniziativa. Il criterio c’è, e si trova nel Decreto ministeriale del 14 gennaio 2008 sulle norme tecniche per le costruzioni, le NTC ben conosciute da qualsiasi ingegnere o architetto. Inoltre, tutti i cittadini italiani dovrebbero sapere se vivono in una zona sismica (quasi tutti), e soprattutto in quale. La mappa ufficiale è del 2003 (protezionecivile.gov.it/jcms/it/classificazione.wp). Esistono quattro zone, evidentemente zona 1 e 2 sono le più pericolose. Ognuno dovrebbe andare a vedere la situazione del proprio Comune di residenza, e poi, sulla base delle procedure e criteri previsti dalle NTC 2008, nulla vieta a nessun privato cittadino di far eseguire i lavori opportuni su un immobile, ottenendo un vero adeguamento antisismico. Il costo dell’intervento non è necessariamente e sempre proibitivo, e si può calcolare anche il relativo aumento di valore dell’edificio. Chi vuole, quindi, potrà appassionarsi alla discussione tra gli addetti ai lavori, per esempio, sul perché non esista ancora un obbligo di certificazione antisismica (risposta onesta: perché milioni di piccoli proprietari, con il contorno di operatori e costruttori, in un Paese a proprietà immobiliare diffusa come in Italia, non sono entusiasti di norme che impongano spese aggiuntive, e questo ha creato da sempre un problema di consenso a norme più stringenti e a maggiori controlli). Oppure su quelle stesse NTC, che dovrebbero essere riviste periodicamente, e sono ormai non perfettamente aggiornate, o sul perché il testo con le linee guida per la classificazione degli edifici, un documento che stabilisce più precisamente la classe di resistenza degli edifici, con sei categorie da A ad F, sia pronto sui tavoli del ministero per le Infrastrutture ma non ancora emanato. Tutto molto interessante, certo, ma non costituisce una scusa per rimanere fermi, per nessun proprietario responsabile. Con un’avvertenza: in una situazione in cui molto è lasciato alla responsabilità dei singoli, si sono affermate, negli interventi di ristrutturazione e di adeguamento, i concetti di “qualificazione” al posto di “certificazione”, e di “miglioramento”, al posto di “adeguamento”. Insomma, molti professionisti e aziende offrono ai proprietari, per ragioni economiche o pratiche, una sorta di prevenzione leggera, all’insegna del fare un po’ quel che si può. Che certo, è meglio di niente, e in certi casi può essere si può essere costretti a compromessi (non stiamo parlando certo di falsificazione dei collaudi e di truffe sui materiali, si è visto anche questo). Ma il crollo di certi edifici moderni creduti, all’incirca e per sentito dire, “antisismici”, e quando si è andati a vedere le carte c’erano appunto stati dei semplici “miglioramenti”, ha dimostrato che certe prassi affermatesi con l’abitudine sono insufficienti.
- Fondi e detrazioni fiscali. Se l’adeguamento sismico si può sempre fare a proprie spese, pure non è difficile ottenere agevolazioni e sostegno. Innanzitutto, attraverso il cosiddetto Ecobonus, una detrazione fiscale “maggiorata” al 65% originariamente pensata per sostenere l’adeguamento energetico delle abitazioni, ma estesa anche al rischio sismico. Nella legge di Stabilità 2016, si prevede fino al 31 dicembre di quest’anno la finestra di tempo per quest’agevolazione fiscale (dal 2017 potrebbe ritornare al 36%, ma sotto lo choc dell’ultimo terremoto, è facile prevedere un’ulteriore proroga). Il tetto di spesa per gli interventi antisismici che possano fruire della detraibilità è oggi di 96mila euro, purché in un Comune in zona sismica 1 o 2. Esistono poi i fondi direttamente impiegabili, su richiesta. Oltre ai programmi straordinari di ricostruzione e messa in sicurezza nelle aree colpite da un sisma, dopo il terremoto dell’Aquila, con la legge 77 del 24 giugno 2009, si è voluto rendere non emergenziale, estendendola a tutto il territorio, l’opera di messa in sicurezza, istituendo un fondo nazionale permanente per la prevenzione del rischio sismico. Si è quindi stabilito un piano di analisi della situazione sul terreno (la “microzonazione”, cioè la mappatura dettagliata del territorio), e, appunto, la possibilità di richiedere un contributo diretto. Lo Stato ha quindi delegato le Regioni ad attuare in pratica questo sistema di finanziamenti, e queste hanno attivato i Comuni: da qui anche, inevitabilmente, una minore o maggiore efficienza, secondo le differenze che innegabilmente si riscontrano nel nostro Paese. La priorità è stata data, per i contributi, agli edifici che fossero di prima residenza, o stabilmente occupati da un’attività lavorativa: un criterio apparentemente ovvio, ma che ha poi provocato feroci polemiche, quando si è visto che in località montane come Amatrice, dove prevalgono le seconde case, questo aveva fortemente limitato la possibilità di disporre dei fondi. Come si vede, ogni scelta, anche compiuta in buona fede e secondo un criterio di ragionevolezza, mette in mostra i limiti e le difficoltà di intervenire sul complesso territorio italiano. Un problema più generale è stato quello dell’informazione: quanti cittadini effettivamente hanno saputo, in questi anni, della possibilità di accedere ai fondi per la prevenzione sismica ? Molte volte, il ridotto numero di domande presentate ai Comuni non va attribuito a chissà quali favoritismi, ma ad un gap di informazione e diffusione delle notizie che, di fatto, diventa un vero e proprio limite di accesso ai diritti. Una campagna generale di informazione potrebbe essere utile, al di là delle notizie comunque riportate dai mezzi di informazione più specializzati. Naturalmente, i piccoli Comuni, a volte, per carenza di personale e di risorse, non sono in grado di andare più in là dell’affissione all’albo pretorio: anche qui, il miglior consiglio ai proprietari di immobili ed ai professionisti è di attivarsi per raccogliere le informazioni più importanti. Infine, esiste il programma europeo FESR (Fondo europeo di sviluppo regionale) che prevede anche un linea di bilancio per il rischi ambientali: com’è noto, spetta poi alle Regioni scegliere in qual modo sviluppare le opportunità dei fondi FESR, individuando le priorità e mettendo a bando i progetti. Com’è comprensibile, alcune Regioni hanno scelto altre priorità, per esempio preferendo di destinare i fondi europei al problema delle frane e delle inondazioni. In conclusione, infatti, i fondi pubblici a disposizione sono la classica coperta corta: ma se non tutto può essere fatto subito, molto potrà essere risolto nei prossimi mesi ed anni, con una maggiore consapevolezza e conoscenza del fatto che l’Italia, uno dei Paesi a maggior rischio sismico in Europa, deve imparare a convivere con un’emergenza assolutamente ordinaria e “normale”. Il Giappone non è lontano.