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Freelance, autonomi e start-up, la nuova frontiera economica

Negli ultimi anni, a causa sia della crisi economica sia dell’adeguamento del mercato del lavoro, sono molto cresciuti di numero i lavoratori autonomi. Con loro anche le startup. Il cambiamento nello stile di vita dei giovani ha contribuito ad innalzare il numero di quei lavoratori che preferiscono essere freelance o aprire una start-up rispetto all’alternativa, per quanto sempre meno praticabile, del “lavoro fisso”.

Tuttavia alcune ricerche dimostrano come tale scelta è più dovuta a condizioni generali di mercato che non a libere scelte individuali.

Adp, leader mondiale nella fornitura di soluzioni di Human Capital Management (Hcm), ha sondato il tema della gig economy, consultando tre anni fa circa 10mila lavoratori dipendenti in tutta Europa. Dalla ricerca risultava che il 68% del campione era interessato, o avrebbe preso in considerazione, il lavoro autonomo o da freelance. In Italia, la percentuale media era del 65%, che saliva all’85,7 per la fascia da 14 a 24 anni, al 76,4 tra 25 e 34 anni.

Nel 2019 una nuova ricerca, sempre condotta dall’Adp, ha evidenziato come il numero di dipendenti che stavano valutando di diventare freelance o lavoratori autonomi era scesa ad appena il 15%, in calo di 11 punti percentuali rispetto al 2017 e a 5 punti percentuali rispetto al 2018, mentre la proporzione di coloro che potrebbero prendere in considerazione queste opzioni era scesa al 34%, dal 40% degli anni scorsi.

A ciò si aggiunge il fatto che il lavoro autonomo è più popolare in alcuni Paesi rispetto ad altri. I lavoratori del Regno Unito considerano con maggiore probabilità la possibilità di diventare freelance o lavoratori autonomi (21%), un lieve aumento rispetto al 2017, seguiti da quelli della Polonia (20%) e dell’Italia (18%). Da noi, tuttavia, la proporzione di lavoratori che sta valutando attivamente questa opzione è diminuita dal 26% nel 2017 al 18% nel 2018.

Il numero delle partite Iva in Italia è tuttavia salito. Ciò dimostra come il lavoro autonomo sia comunque in crescita nel nostro Paese.

Secondo i dati del ministero dell’Economia, nel 2019 sono state aperte circa 545.700 nuove partite Iva con un aumento, rispetto all’anno precedente, del 6,4%. Di queste il 72,9% è stato aperto da persone fisiche, il 21,4% da società di capitali, il 3,6% da società di persone, l’1,8% da soggetti non residenti e lo 0,3% da altre forme giuridiche. L’aumento maggiore si è registrato nelle persone fisiche (+10,5%), grazie soprattutto alle adesioni al regime forfettario. Al contrario delle forme societarie che mostrano invece cali di avviamenti: -5,7% le società di capitali e -12,9% per le società di persone.

L’Italia, con cinque milioni di lavoratori autonomi, è al secondo posto dopo la Grecia, nazione europea con il più alto numero di lavoratori freelance. Ciò potrebbe esser dovuto ad una minore possibilità di essere assunti a tempo indeterminato. L’incidenza sul totale degli occupati è la più alta anche tra i giovani: su poco più di quattro milioni di occupati tra i 25 e i 34 anni, il 16,3% svolge un lavoro autonomo contro una media Uedel 9,4%.

Secondo una recente indagine di una delle piattaforme mondiali di ricerca del lavoro per freelance, Upwork, entro il prossimo decennio, man mano che la generazione Z entrerà nel mercato del lavoro, lavorare da remoto (tipica dei freelancer) diventerà la norma per circa il 73% dei team.

Molti lavoratori autonomi utilizzano per il proprio lavoro delle postazioni in coworking, ossia spazi di condivisione, ma orientati alla libertà e alla capacità di unire persone con competenze, conoscenze e abilità differenti, necessari per adattarsi ad un mercato del lavoro sempre più competitivo. Si tratta di soggetti che hanno voglia di apprendere e arricchire le proprie competenze in un ambiente favorevole alla trasmissione dei saperi e allo scambio professionale. I co-working, inoltre, accolgono al loro interno nuove figure di lavoratori autonomi, legati principalmente alla sharing economy, in cui vi è una condivisione di risorse umane e materiali.

E’ proprio in questo ambiente che si sviluppa l’apprendimento non formale e informale, basato su competenze di collaborazione, problem solving, aiuto reciproco, creatività e pro-attività. Competenze e abilità indicate dalla Commissione europea, come fondamentali per affrontare le nuove sfide poste dalla continua trasformazione del mercato del lavoro.

In particolare, la settima competenza chiave, “Spirito d’iniziativa e imprenditorialità”, sembra quella più connessa all’acquisizione di nuove competenze utili ad avviare una professione autonoma o imprenditoriale, ma anche ad affrontare meglio il lavoro dipendente.

Il “Piano d’azione imprenditorialità 2020” stabilisce che “per riportare l’Europa sui binari della crescita e dell’occupazione abbiamo bisogno di un maggior numero di imprenditori” e di lavoratori autonomi. Uno studio della Fast Company, magazine economico newyorkese, asserisce che, entro il 2040 negli Usa, oltre il 40% della forza lavoro sarà costituita da freelance.

Un’altra indagine, della Edelman Berland, attesta che se nel 2014 i freelance rappresentavano, nel mercato Usa, il 34% della forza lavoro, nei prossimi 25 anni, il mercato del lavoro cambierà radicalmente verso il self-employed, la contrattazione indipendente e il lavoro peer-to-peer su piattaforme internet (negli Usa è molto attiva la piattaforma “Taskrabbit”).

Proprio le piattaforme internet rappresenteranno per i lavoratori autonomi e i freelance una nuova opportunità per ampliare il mercato di riferimento. Esistono già molte piattaforme dedicate ai lavoratori autonomi che riuniscono, soprattutto all’estero, i freelance: come “Freelancer.com” (oltre 16 milioni di iscritti) o “Upwork” (14 milioni di iscritti). Anche in Italia cominciano a svilupparsi app e siti dedicati agli autonomi in cui proporsi. Tra i siti: “Addlance”, dove si possono trovare lavoratori autonomi di vario genere (non ordinistici e ordinistici); per i creativi ci sono i due siti “Starbytes” e “Zoopa”, mentre per traduttori e scrittori (editor, blogger, etc.) si può consultare “Texbroker”, “O2O”, “Scribox” e “TranslatorCafe”. La diversificazione dell’imprenditoria è assicurata dalle piattaforme di crowdfunding e dalla produzione delocalizzata.

Per affrontare le nuove sfide è necessaria una formazione più ampia, legata all’acquisizione e utilizzo delle cosiddette soft skills, in linea con la settima competenza chiave citata.

Sia che si voglia avviare una start-up sia che si voglia esercitare un lavoro autonomo, diventa essenziale possedere un “mindset imprenditoriale” che permetta di avere delle competenze multitask in grado di rispondere ai continui cambiamenti del mercato del lavoro, sempre più centrato su incarichi a tempo parziale, carriere multiple e crescita delle attività autonome e imprenditoriali.

Una consultazione pubblica della Commissione europea del 2012 (Report on the results of public consultation on The Entrepreneurship 2020 Action Plan) ha evidenziato che i giovani che vogliono avviare una professione autonoma o un’impresa, dopo il completamento degli studi superiori, sono nell’ordine del 3-5% contro il 15-20% dei giovani che partecipano ad attività di educazione all’imprenditorialità. Questi ultimi avviano imprese o intraprendono un lavoro autonomo prima degli altri. Gli studenti universitari che hanno ricevuto un’educazione all’imprenditorialità sono riusciti ad avviare una propria azienda un anno prima di laurearsi, al contrario di coloro che non hanno partecipato ad iniziative di educazione all’imprenditorialità e che sono riusciti ad avviare una propria attività circa tre anni dopo la laurea.

L’importanza di acquisire un mindset imprenditoriale è evidente anche dall’alta percentuale di risposte positive, fornite alle domande poste nella consultazione pubblica. Infatti oltre il 40% degli intervistati ha ritenuto molto importante avere delle “piattaforme o degli hub di condivisione per l’apprendimento imprenditoriale al fine di condividere le migliori pratiche e sviluppare modelli comuni di politica, implementazione e misurazione”. Oltre il 64% degli intervistati ha ritenuto importante “integrare attività per lo sviluppo di comportamenti, abilità e mentalità imprenditoriale, nei curricula nazionali e regionali, compresa la formazione non formale e informale, e misure che permettano a tutti i giovani di provare un’esperienza imprenditoriale prima di lasciare la scuola secondaria (come parte formale dei curricula o come attività extracurricolare supervisionata dalla scuola o da un organismo di educazione non formale).

Altro dato interessante è quello relativo all’età di imprenditori e lavoratori autonomi. Solo il 6,7% dei lavoratori autonomi ha un’età al di sotto dei 34 anni (Consolini, M.; Di Saverio, M., Loasses, C., Richini, P., 2013). Sembra, quindi, necessario investire nell’educazione all’imprenditorialità per aumentare il numero dei lavoratori autonomi o di imprese con soggetti di età inferiore ai 34 anni.

Pertanto, coworking e fablab rappresentano contesti fluidi e senza confini, luoghi privilegiati per “sperimentare” attività autonome, formazione e apprendimento condiviso, nonché una possibile risposta all’isolamento laddove il lavoro diventa sempre più flessibile e gli individui hanno spesso difficoltà nell’interpretare i cambiamenti e pianificare il futuro.

I mutamenti indotti dalla velocità del cambiamento della società contemporanea, sollecitano lo sviluppo di nuove conoscenze utili a fronteggiare dinamiche complesse. Proprio in questi contesti si sta sviluppando una diversa modalità di apprendimento, che può essere ricondotta a quello che Gregory Bateson (1977) definisce “deutero-apprendimento”, ossia la capacità di affrontare e risolvere problemi sempre più complessi: una nuova capacità di “apprendere ad apprendere”, autonoma, responsabile, consapevole.

In riferimento all’educazione all’imprenditorialità, il Thematic Working Group on Entrepreneurship Education, costituito nell’ambito del programma Education and Training 2020, ha proposto una classificazione di iniziative e attività rientranti in tale ambito. Queste riguardano:

  • lo sviluppo di doti personali e competenze trasversali, in una logica di sviluppo della mentalità imprenditoriale (mindset);
  • la sensibilizzazione degli studenti sul tema del lavoro autonomo e della prospettiva imprenditoriale come possibili scelte professionali;
  • la realizzazione di attività e progetti concreti (es. mini-imprese create da studenti);
  • lo sviluppo di conoscenze e competenze aziendali specifiche per avviare e gestire un’azienda.

Nell’ambito dell’educazione all’imprenditorialità, l’Unione europea ha dedicato anche una particolare attenzione ad alcuni gruppi specifici, quali le donne imprenditrici, i migranti, le imprese sociali, familiari e i liberi professionisti. L’Unione evidenzia, inoltre, che proprio i liberi professionisti necessitano di una formazione tecnica specifica per ogni settore, strettamente regolate da governi nazionali o albi professionali (quali giornalisti, avvocati, commercialisti, etc.). Anche queste figure dovranno affrontare delle sfide importanti, nei prossimi anni, non molto dissimili da quelle che già oggi affrontano gli start-up per accedere ai mercati e ai finanziamenti, ridurre l’onere normativo (anche con norme più chiare e semplici per le professioni), oltre ad elevare i livelli di istruzione e formazione imprenditoriale.

Come già evidenziato dalla pubblicazione OECD (2010), fin dagli anni ’70 si è assistito ad un importante cambiamento nelle nostre società, che da “pilotate” (managed) sono diventate sempre più “imprenditoriali”. Si è assistito ad un’economia di produzione in scala, della finanza, del management ad una più imprenditoriale, dove si tende a premiare l’adattamento creativo della persona, la ricerca attiva di opportunità e la capacità di trasformare le idee in corsi d’azione (Bahri & Haftendorn, 2006). Anche secondo l’esperto inglese di imprenditorialità Allan Gibb (2002) esiste il bisogno di preparare i giovani per una vita di maggiore incertezza e complessità.

Tali capacità diventano sempre più importanti per i lavoratori autonomi in quanto, come per i dipendenti, si trovano a dover fronteggiare transizioni occupazionali e contrattuali, elevata mobilità, necessità di negoziare con persone provenienti da ambiti culturali diversi, maggiore ricorso all’autonomia e alla responsabilità.

Educare al “senso di iniziativa e imprenditorialità” è fondamentale anche all’interno delle libere professioni, in quanto consentirebbe d’individuare le opportunità disponibili insieme ad una maggiore conoscenza del contesto economico e delle sfide poste dal mercato del lavoro.

Lo sviluppo di abilità legate ad una gestione progettuale pro-attiva (pianificare, organizzare, gestire, delegare, analizzare, comunicare, rendicontare, valutare), con un’attitudine a lavorare sia individualmente sia in gruppo, all’interno di un solido sistema di rappresentanza, saranno indispensabili nel futuro.

I continui cambiamenti tecnologi e del mercato del lavoro stanno modificando anche le caratteristiche e le peculiarità del lavoratore autonomo. Quest’ultimo, infatti, presenta oggi molteplici sfaccettature che lo accomunano sempre più a un imprenditore. Il lavoratore autonomo ha necessità di sviluppare competenze di marketing e personal branding per promuovere le sue attività e le sue competenze. La crescita continua di start-up e delle opportunità lavorative, ad esse associate, rappresenteranno in parte l’evoluzione di molte figure di lavoratori autonomi e, dall’altra, nuove opportunità per molti professionisti chiamati a lavorare o a condividere spazi, luoghi e attività con start-up in crescita.

L’ecosistema delle start-up

La parola che negli ultimi anni appare sempre più spesso su quotidiani, televisioni, radio o cartelloni pubblicitari è “start-up”. Con essa s’intende un nuovo modo di fare impresa e di vivere il lavoro autonomo. La start-up nasce come un modello agile in grado di crescere rapidamente e attraverso un business model scalabile e replicabile, ovvero che può essere ripetuto in diversi luoghi senza doverlo rivoluzionare.

In un periodo di lunga crisi economica come quella che ha colpito il mondo intero dal 2008 in poi, la start-up sembra essere un modello in grado di garantire nuovo impulso all’economia, incrementando l’occupazione e la crescita economica, grazie alla sua capacità di crescere in fretta.

In molti Paesi si sta cercando di implementare ed incoraggiare l’avvio di start-up attraverso numerosi interventi legislativi per creare ecosistemi in grado di supportare e far crescere nuove realtà imprenditoriali ad alto valore aggiunto, in grado di operare su mercati globali. Una crescente attenzione anche da parte del nostro Paese, in virtù di un tessuto produttivo caratterizzato in maggioranza da microimprese a carattere familiare, prevalentemente attive in settori tradizionali, con ridotte capacità innovative, basse percentuali di export, che hanno difficoltà ad aggregarsi e ripensare le proprie attività di business per elevare il valore aggiunto di prodotti e servizi in uno scenario competitivo globalizzato.

La crescita e lo sviluppo di una start-up dipende molto dall’ecosistema-Paese in cui è inserita. Un ecosistema è costituito da un territorio che connette talenti, venture capital, università, etc., ossia un ambiente in cui la sinergia tra tutte queste componenti genera hub d’innovazione e d’impresa.

L’esperienza dei grandi hub globali dell’innovazione dimostra che l’integrazione di forza lavoro altamente qualificata – e il processo di “contaminazione” culturale che ne scaturisce attraverso lo scambio di idee, pratiche e contatti – rappresenta un valore aggiunto per gli ecosistemi locali. In un mercato economico e del lavoro sempre più globalizzato e in concorrenza, diventa fondamentale rimanere competitivi. Per questo è importante sviluppare ecosistemi “globali” iniziando dalle persone ce dai soggetti economici e istituzionali che lo compongono.

Un ecosistema idoneo, o business ecosystems (Moore, 1993), non è prevalentemente legato a buone condizioni fiscali, normative e amministrative di un dato territorio, ma è connesso soprattutto al tessuto economico, al mercato e al contesto nel quale sono inserite le imprese e alla qualità degli stakeholders (fornitori, clienti, istituzioni, intermediari finanziari, competitors, università e centri di ricerca, etc.).

Se l’ecosistema è all’interno di un territorio popolato da altre start-up e da attori della filiera dove è possibile fare impresa agevolmente e trovare alleati, come nei contesti americano (Silicon Valley), israeliano (Tel Aviv) o inglese (Londra), la nascita e lo sviluppo delle start-up può rappresentare un punto di partenza per la crescita economica di un Paese. Al contrario, un ecosistema sterile e non votato all’innovazione rischia di disperdere il proprio capitale umano e tecnologico.

Il Global Start-up Ecosystem Report 2019 ha evidenziato come l’Italia non sia un sistema idoneo allo sviluppo e alla crescita delle start-up, proprio perché mancano queste connessioni tra i diversi attori.

Negli ultimi anni il nostro Paese ha cercato di “recuperare terreno” attraverso la creazione di veri e propri territori fertili per le start-up. Il rapporto citato indica tra i migliori ecosistemi: Silicon Valley, New York e Londra; a cui si aggiungono Pechino, Boston, Tel Aviv, Berlino, Shanghai, Los Angeles, Seattle, Parigi, Singapore, Austin, Stoccolma, Vancouver, Toronto, Sydney, Chicago, Amsterdam, etc.

La Silicon Valley, ad esempio ha oltre 15mila start-up attive, con 2 milioni di occupati. New York può contare su una rete di quasi ottomila start-up, Londra quasi seimila. Inoltre tra le città che stanno investendo sul fronte delle politiche e degli investimenti in start-up troviamo – soffermandoci solo su quelle europee – Barcellona, Tallin, Francoforte, Helsinki, Lisbona e Malta.

L’interesse per le start-up è dimostrato anche dagli investimenti dei venture capital in queste nuove realtà. Nel solo 2017 nel mondo, infatti, sono stati investiti 140 miliardi di dollari. Con un totale di valore creato dal 2015 al 2017 di 2,3 trilioni di dollari: un incremento del 25,6% dal 2014 al 2016.

Nel nostro Paese, secondo la 4° relazione trimestrale del 2019 del ministero dello Sviluppo economico, le startup innovative (iscritte al registro istituito con decreto 179/2012) attive ammontano a circa 10.882 unità, con un aumento di 272 unità (+2.6%) rispetto al trimestre precedente. A queste però andrebbero sommate le start-up che non sono iscritte nel registro in quanto mancanti di quei requisiti previsti dalla legge, e di cui è difficile tener conto.

Le start-up innovative in Italia (2019)

3° trim 2019 4° trim 2019
N. startup innovative 10.610 10.882 2.56
N. nuove società di capitali 365.367 364.697 -0.18
% startup innovative sul totale delle nuove società di capitali 2,90 2.98 n.d.
Capitale sociale totale dichiarato dalle startup innovative 545.599.002 € 583.206.111 € 6.89
Capitale sociale totale dichiarato dalle nuove società di capitali 34.948.389.246 €
34.306.477.074 € -1.84

Fonte: Mise, 2019

Anche il capitale sociale sottoscritto complessivamente dalle start-up risulta in crescita rispetto al terzo trimestre (+37,6 milioni di euro, +6,89% in termini percentuali) attestandosi ad una quota di 583,2 milioni di euro, con un capitale medio pari a 53.594 euro a impresa, in ripresa (+4,2%) rispetto al dato del trimestre precedente.

I settori di attività in cui sono attive le start-up vanno dalla fornitura di servizi alle imprese, con il 73.7% di start-up attive (in cui prevalgono la produzione di software e la consulenza informatica (35,6%), le attività di R&S (13,9%) e i servizi d’informazione, (9,2%); al manifatturiero con il 17,6% (di cui fabbricazione di macchinari (3,1%), fabbricazione di computer e prodotti elettronici e ottici (2,8%). Infine il 3,4% opera nel commercio.

Altro dato interessante è la prevalenza di giovani (under 35) in startup innovative. Infatti 2.153, cioè il 19,8% del totale delle start-up è stata creata da giovani, con una percentuale di 3 punti superiore rispetto a quello riscontrato tra le nuove aziende non innovative (16,6%).

Ma, pur se i dati sono incoraggianti, per rendere “appetibile” un territorio agli investitori e, quindi, per creare un ecosistema fertile alla creazione di start-up, è necessario prevedere benefici fiscali per gli investimenti in start-up, una formazione aziendale semplificata, visti per imprenditori e investitori, immissione di nuovo capitale pubblico ed interventi sulla tassazione e sulla certezza della legge, ma soprattutto attrarre talenti attraverso la qualità degli ecosistemi.

Grandi passi avanti si stanno facendo nel nostro Paese con la creazione, soprattutto a Milano, di centri dell’innovazione come ad esempio TAG, Copernico, Cariplo Factory, HFarm che aggregano al loro interno venture capitalist, talenti, campus di formazione, e in molti casi collegamenti con altri Paesi europei ed extraeuropei e la costituzione di incubatori e acceleratori italiani (all’interno delle università). La Lombardia è la Regione che più di altre in Italia ha avviato vari provvedimenti in grado di attrarre capitali e talenti. E’ infatti la Regione in cui se registra il maggior numero di start-up innovative create 2928 pari al 26,9% del totale nazionale, seguita dal Lazio con 1.227 startup (11,3%), l’Emilia-Romagna con 931 (8,6%) e infine il Veneto, con 889 (8,2%). Al sud è la Campania ad avere il maggior numero di start-up, con 896 start-up create (8,2%). Ultime la regione Basilicata con 104, il Molise con 80 e la Valle d’Aosta con 22 start-up innovative.

Ed è proprio il capoluogo milanese che registra la maggiore concentrazione di start-up innovative con 2.075 unità attive che rappresentano il 19.1% del totale nazionale. Non a caso, infatti, in questa Regione 1/5 delle risorse è investito e speso in ricerca e sviluppo e 1/3 dei brevetti di tutto il Paese viene registrato in questo territorio. La Lombardia, inoltre, ospita il 23,2% delle “start-up knowledge intensive” con un tasso di crescita medio alto nel medio periodo (6,9% insieme al Baden-Württenberg) nonché la percentuale più alta di imprese che investono in ricerca e sviluppo (49,8%).

Roma si posiziona al secondo posto con 1.110 start-up il 10,2% del totale nazionale, seguita da Napoli (423 start-up, 3,9%), Torino (376, 3,5%), Bologna (314, 2,9%). Nelle prime 10 troviamo anche Padova, Bergamo, Bari, Salerno e Verona. Se si considera il numero di start-up innovative in rapporto al numero di nuove società di capitali attive nella provincia, al primo posto si posiziona Trento (7,5%); seguono Trieste (6,8%), Ascoli Piceno (5,8%) e Milano (5,7%).

Interessante il profilo occupazione che generano le start-up. Le 4.372 start-up presenti nel registro occupano almeno un dipendente (160 in più rispetto a fine giugno), pari al 41,2% del totale. Sempre secondo il rapporto del Mise le start-up innovative impiegavano 13.803 persone, a cui si aggiungono i soci arrivando ad una quota di 61.820 occupati, con un aumento della forza lavoro di 671 unità e una crescita su base annua di 816 (+15.1%)

Per quanto riguarda il finanziamento delle start-up, emerge una crescita della raccolta di fondi avviata dalle aziende e in particolare una crescita dell’equity crowdfunding.

I finanziamenti delle start-up in Italia (2015-2019)

Fonte: Start-up Italia, https://startupitalia.eu/111566-20190624-investimenti-primi-6-mesi-2019

Le start-up italiane e quelle fondate da italiani all’estero hanno investito nel 2019 circa 397 milioni di euro nei primi sei mesi del 2019.

Il governo italiano, per bocca del ministro Di Maio durante il discorso tenuto al DigithON di Bari l’8 settembre 2018, ha annunciato un fondo di quattro miliardi di euro per le start-up e a febbraio 2019 è stato confermato il fondo da un miliardo di euro destinato alle startup, per provare a dare un’ulteriore spinta alla crescita dell’ecosistema italiano delle start-up.

Il lento processo delle policy messe in campo dal governo attraverso anche l’elaborazione dello Start-up Act, hanno sicuramente teso ad agevolare la creazione di start-up nel territorio attraverso una serie di strumenti complementari, tra i quali una modalità di costituzione rapida e gratuita, una procedura di fallimento semplificata, incentivi fiscali per gli investimenti in equity e un sistema pubblico di garanzia per l’accesso al credito bancario. Ma resta ancora molto da fare per raggiungere gli ecosistemi degli altri Paesi europei e extraeuropei.

E’ pertanto fondamentale continuare sulla strada avviata finora, stimolando l’intraprendenza dei territori e la loro capacità progettuale attraverso interventi che rendano questi territori, in breve tempo, ospitali per le start-up. La costruzione di un ecosistema idoneo a far nascere e sviluppare le start-up è una sfida che coinvolge una pluralità di attori pubblici e privati e che richiede una progettazione congiunta per definire una prospettiva di sviluppo. Un ecosistema che funzioni deve essere in grado di attrarre persone con nuove competenze, capitali e investimenti.

GLOSSARIO

L’ordinamento italiano ha iniziato ad interessarsi delle start-up nel 2012, anno in cui è stato pubblicato il rapporto “Restart Italia”, i cui contenuti hanno poi permesso la redazione del Decreto Legge179/2012, cosiddetto Start-up Act, poi convertito dal Parlamento il 13 dicembre 2012, che introduce specifiche misure volte a favorire la crescita sostenibile, lo sviluppo tecnologico, la nuova imprenditorialità e l’occupazione (in particolare quella giovanile), mediante il riconoscimento delle start-up innovative.
Definizione: “l’impresa start-up innovativa, …, è la società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano ovvero una Societas Europaea, residente in Italia ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione”. Deve inoltre avere quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico; che le quote o azioni di capitale siano detenute per almeno 24 mesi dai soci; non svolga attività da oltre 60 mesi; sia produttiva o abbia una filiale in Italia; il valore della produzione non sia superiore, dal secondo anno, a 5 milioni di euro; non distribuisce, e non ha distribuito, utili e infine che non sia stata costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda.
Caratteristiche: detenute direttamente e almeno al 51% da persone fisiche, anche in termini di diritti di voto; svolgono attività di impresa da non più di 48 mesi; non hanno fatturato – ovvero hanno un fatturato, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato, non superiore ai 5 milioni di euro; non distribuiscono utili; hanno quale oggetto sociale lo sviluppo di prodotti o servizi innovativi, ad alto valore tecnologico; si avvalgono di una contabilità trasparente che non prevede l’uso di una cassa contanti, fatte salve le spese legate ai rimborsi”.
Start-up innovativa: è necessario che le spese in ricerca e sviluppo siano uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione della start-up innovativa; che impieghi dipendenti o collaboratori in possesso di dottorato di ricerca o che stia svolgendo un dottorato di ricerca oppure che abbia svolto, da almeno e quindi beneficiare dei contributi, tre anni, attività di ricerca certificata infine sia titolare o depositario o licenziatario di almeno una invenzione industriale, biotecnologica, etc. Si considerano start-up innovative anche le società che abbiano come oggetto sociale la promozione dell’offerta turistica nazionale attraverso l’uso di tecnologie e lo sviluppo di software originali, in particolare, agendo attraverso la predisposizione di servizi rivolti alle imprese turistiche”.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

https://www.statista.com/topics/4733/startups-worldwide/

https://fortune.com/

https://startupitalia.eu/121478-20200210-milano-guida-l-ecosistema-startup-i-dati-del-mise-sull-innovazione-in-italia
https://ischool.startupitalia.eu/education-main/education/66671-20200420-al-via-lezioni-tv-gli-studenti-casa-causa-emergenza-covid-19

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